La Forma dell’Acqua – Il film vincitore dell’Oscar 2018

Pubblicato il 10 Marzo 2018 alle 20:00

Baltimora, primi anni ’60. Elisa Esposito è una donna muta che vive sola e lavora come inserviente in un laboratorio segreto governativo. I suoi unici amici sono il vicino di casa Giles, artista omosessuale, e la collega Zelda. Un giorno, nel laboratorio viene portato un umanoide anfibio catturato in Sudamerica dal perverso Colonnello Richard Strickland. Mentre Elisa fa conoscenza con l’essere e s’innamora di lui, la Guerra Fredda tra americani e sovietici minaccia il loro idillio.

A voler essere cinici, La Forma dell’Acqua è la storia di una sguattera emarginata e bruttina che conduce una vita squallida ed è talmente disperata da fare sesso con un mostro cannibale. Sarebbe un thriller psicosessuale raccapricciante se la vicenda non fosse filtrata attraverso la lente romantica e poetica di Guillermo del Toro che ha voluto dare la sua personale rilettura sentimentale a Il Mostro della Laguna Nera.

Non si pensi però ad un semplice omaggio agli horror classici della Universal Pictures in stile Tim Burton. Tutt’altro. Il film è un canto d’amore per la settima arte che spazia tra i generi ed intreccia tutta una serie di citazioni metalinguistiche e riferimenti espliciti. E’ una fiaba con sfumature horror, è una spy story in clima guerra fredda, c’è qualche sentito omaggio al musical anni ’30 e un raffinato erotismo.

Non a caso, la storia parte proprio da una sala cinematografica sopra la quale è situato lo spartano appartamento della protagonista. Elisa è muta, comunica col linguaggio dei segni. La storia d’amore con la creatura è quindi dettata solo dalla gestualità e dalle delicate note al pianoforte di Alexandre Desplat mentre l’occhio registico scruta, indaga, s’insinua e coglie ogni sfumatura. Immagini e musica. Le fondamenta del linguaggio cinematografico.

Sul piano formale, quindi, siamo di fronte ad un’opera ineccepibile che ha meritato i due Golden Globe vinti (per la regia e la musica, appunto) e, tutto sommato, può starci anche il Leone d’Oro lagunare. La sceneggiatura, però, è tutt’altra questione. Narrazione e struttura sono a dir poco zoppicanti, a tratti imbarazzanti, a spese del coinvolgimento emotivo del pubblico. Il regista si avventura in troppe linee narrative secondarie e dispersive che si concentrano sul contesto storico, tristemente attuale nelle sue contraddizioni più spigolose, distogliendo l’attenzione dai due protagonisti.

Michael Shannon interpreta il miglior cattivo della sua carriera e fa tutto ciò che avrebbe dovuto fare nel ruolo del Generale Zod de L’Uomo d’Acciaio. Il suo colonnello Strickland è il figlio disfunzionale dell’american dream anni ’60, un ipocrita violento, xenofobo e sessista che si nasconde sotto la patina borghese e perbenista della middle class. Per quanto ben tratteggiato, però, si tratta pur sempre di un villain e la sua presenza andrebbe misurata. Si prende invece troppo spazio, più di quanto ne abbia l’umanoide anfibio, catalizzando eccessivamente l’attenzione del pubblico.

Anche l’arco narrativo dell’artista gay, vicino di casa di Elisa, sembra inserito più per la necessità di toccare tematiche in voga che per la sua effettiva utilità. Ci sono i buoni, puntualmente emarginati, che vogliono aiutare la creatura acquatica e ci sono i cattivi dell’esercito che vogliono farle del male. Le spie russe sono ridondanti, non servono praticamente a nulla. Rimosse dal film non cambierebbero l’evolversi degli eventi di una virgola. Sono solo un altro elemento per giocare con il periodo storico e divertirsi col thriller spionistico.

E, intanto, si perde contatto con la componente sentimentale, non si riesce a credere fino in fondo alla relazione tra i due protagonisti, trattata per sommi capi. E’ molto difficile empatizzare con l’umanoide anfibio che resta troppo animalesco, troppo distaccato e respingente. Non c’è il processo di umanizzazione di King Kong o quello più facile di un E.T.. Del Toro pare più concentrato a mostrarci le meraviglie della creatura, il make-up troppo simile a quello dell’Abe Sapien di Hellboy, la sua pelle che s’illumina, i suoi poteri taumaturgici, piuttosto che approfondire il suo stato interiore.

Il rapporto sessuale con Elisa non può suscitare la giusta emozione se, cinque minuti prima, viene mostrato l’essere che stacca la testa di un gatto a morsi. La storia affoga letteralmente in un finale prevedibile, affrettato, a cui non vengono concessi né il giusto afflato né l’enfasi necessaria. Guillermo del Toro è riuscito a dare forma all’acqua ma non è riuscito a darle sostanza.

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