Providence 3 | Recensione

Pubblicato il 6 Dicembre 2017 alle 10:00

Si conclude la straordinaria opera horror di Alan Moore: Providence! Cosa succederà a Robert Black, il giornalista coinvolto negli orrori lovecraftiani? Scopritelo in questo terzo e ultimo volume firmato dal celebrato autore di Watchmen!

Providence non è un’opera facile e ha suscitato reazioni contrastanti tra i lettori. Molti lo hanno elogiato e negli Stati Uniti qualcuno ha affermato che sta all’horror così come Watchmen sta ai fumetti di supereroi. Altri, pur apprezzandolo, sono stati più cauti nel giudizio. La verità è che Alan Moore si è posto un obiettivo arduo: analizzare ed esplorare l’immaginario di H.P. Lovecraft, forse uno degli scrittori horror più acclamati di sempre, collegandosi a svariate suggestioni letterarie, filosofiche e artistiche, con il pretesto di una story-line dalle atmosfere visionarie e perturbanti.

Riassumere la trama di Providence, in effetti, non è semplice. Il protagonista è Robert Black, un giornalista che già nel nome evoca il romanziere Robert Bloch (la serie è piena di rimandi simili) e vive negli Stati Uniti del 1919. L’America descritta da Moore è tormentata da pulsioni negative e le più ricorrenti sono il razzismo, il classismo e l’omofobia. Robert è gay, nasconde il suo orientamento sessuale e sente parlare di un libro maledetto e di un culto a esso collegato. Incuriosito, incomincia a indagare e ben presto si confronta con una realtà incredibile.

Esiste, infatti, un’altra America, invisibile e popolata da uomini incestuosi dediti a pratiche occulte. Ci sono altresì creature mostruose che tormentano i sogni di Robert e di altri personaggi e ossessionano artisti, scrittori e uomini di cultura. Si tratta, dunque, di un’America parallela che pochi conoscono. Robert, suo malgrado, si addentra in questo paese che di fatto è la rappresentazione metaforica di uno stato interiore, ed episodio dopo episodio va incontro a esperienze sempre più destabilizzanti.

In questo terzo e conclusivo volume che include i nn. 9-12 di Providence, i nodi vengono al pettine ma la trama è più complicata. Già nei capitoli precedenti era entrato in scena lo stesso Lovecraft (e anche altri scrittori realmente esistiti) e Moore aveva iniziato a fare profonde riflessioni sulla scrittura e sulla fiction. Ora la fiction diventa predominante e Robert (e insieme a lui il lettore) non sempre riesce a comprendere cosa sia autentico e cosa sia invece frutto dell’immaginazione di un romanziere. E se la realtà in cui viviamo fosse un’invenzione? E se il mondo autentico fosse sempre stato quello descritto da Lovecraft nelle sue opere letterarie? E se i mostri di Lovecraft fossimo noi?

Moore cerca di dare una risposta a queste domande, ideando una story-line basata su incubi, visioni, allucinazioni, riferimenti alle teorie spazio-temporali di Einstein, alla fisica quantistica e all’esoterismo. A un certo punto, si avrà la spiegazione dei misteri di Providence ma il Bardo di Northampton non ce la darà in una forma lineare dal punto di vista narrativo. La fiction sperimentale, infatti, influenza la struttura stessa del fumetto e, conseguentemente, anche le percezioni del singolo lettore.

La tesi sconvolgente di Moore è questa: l’immaginario di Lovecraft, con il Necronomicon, Chthulhu e così via, è assimilabile a una religione. Anche i culti religiosi, infatti, vengono espressi e divulgati in forma narrativa. Le opere di HPL si sono diffuse nel corso del tempo come un virus e hanno suggestionato, manipolato e influenzato la psiche collettiva. Alla fine, la fiction lovecraftiana corrisponde alla nostra realtà e sia i personaggi di Providence sia i suoi lettori ne diventano parti integranti. Il concetto della parola e della scrittura come virus è mutuato da Burroughs (peraltro presente in alcune pagine di questo volume, insieme ad altri autori della Beat Generation, a Borges e a numerosi romanzieri) e Moore lo utilizza in maniera impeccabile.

Sebbene Providence si concentri comunque su Robert Black, non mancano riferimenti più o meno diretti a Il Cortile e a Neonomicon, opere che l’autore inglese realizzò anni fa. Fu con quelle che iniziò la sua riflessione su Lovecraft e ora diventano il tassello di un unico grande puzzle narrativo. La prosa di Alan è, come al solito, intensa e poetica. Ci sono ovviamente le appendici in prosa che possono risultare ostiche e pesanti, soprattutto con il font che mima la calligrafia diaristica, ma che costituiscono una delle caratteristiche più tipiche del suo stile (e non dobbiamo comunque dimenticare che lo zibaldone redatto da Robert ha un ruolo importante nella storia).

I disegni di Jacen Burrows sono plastici ed eleganti. Il penciler evita facili virtuosismi e opta per un tratto naturalistico e dettagliato. Rappresenta in maniera efficace la normalità, se non addirittura la banalità, degli ambienti quotidiani nei quali, però, all’improvviso emergono gli orrori e le mostruosità lovecraftiane, in maniera spiazzante. Burrows costruisce vignette widescreen, spaziose e rettangolari, e il risultato è di buon livello. In definitiva, Provicence, a modo suo, è un capolavoro. Ma anche coloro che non lo considerano tale dovrebbero in ogni caso provarlo poiché è di gran lunga superiore a tante proposte editoriali attuali.

 

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