Dylan Dog 375 – Nel Mistero: la nuova storia di Tiziano Sclavi | Recensione

Pubblicato il 12 Dicembre 2017 alle 10:00

Un anziano senzatetto predice a Dylan Dog una serie di sciagure salvandogli più volte la vita e gli preannuncia la fine del mondo. Intanto, un glaciale serial killer si aggira per Londra commettendo omicidi del tutto scollegati tra loro. L’indagatore dell’incubo si ritrova al centro di un mistero che non riesce a comprendere.

Un passo del Talmud (citato in Schindler’s List di Spielberg) dice: “Chi salva una vita, salva il mondo intero.” Tiziano Sclavi risponde con: “Quando muore un uomo, muore l’intero universo.” E’ il destino di molti protagonisti del fumetto seriale quello di scampare costantemente alla morte. In tal senso, il senzatetto Nemo, che conosce in anticipo il fato di Dylan e gli permette più volte di sopravvivere a terribili tragedie, può essere inteso come un’emanazione dello stesso Sclavi, qui alla sua seconda storia nel nuovo corso editoriale che fa seguito all’epocale ritorno di un anno fa con l’albo dall’emblematico titolo Dopo un lungo silenzio.

Dylan sfiora la Signora con la Falce in più di un senso, non solo sfuggendo alle catastrofi predette ma imbattendosi anche nel serial killer le cui gesta sono accompagnate dalla Ballata della Morte, uno dei marchi di fabbrica dell’autore. L’assassino, palesemente ricco ed elegante, un Patrick Bateman da American Psycho, costituisce la dicotomia con il povero Nemo, ennesimo Nessuno sclaviano che, nella mitologia dell’autore pavese, è capace di generare universi. Anche per questo motivo è possibile considerare il personaggio come un avatar dell’autore.

Ritroviamo uno Sclavi molto sintetico e concettuale, sospeso tra nichilismo e agnosticismo, affascinato da paradossi e universi paralleli come già in racconti precedenti qui citati quali Storia di Nessuno, Tre per Zero e Ascensore per l’inferno.

Il dualismo tra Nemo e il killer, creazione ed entropia, si riflette nella struttura della storia, e va a creare un inevitabile corto circuito. Nel mezzo c’è il disagio esistenziale, il vuoto creativo dello sceneggiatore. Come già nella sua prova precedente, l’elemento paranormale è latente, Dylan non ha nulla su cui indagare. In questo caso, non c’è nemmeno un personaggio femminile (ad esclusione di una Rania appena funzionale), figura spesso salvifica per il personaggio. Sclavi schiva intimismo e passione rendendo Dylan testimone passivo degli eventi, inanellati fino all’inevitabile apocalisse. In maniera provocatoria, l’antieroe è quindi protagonista pur non avendo alcun vero ruolo nella vicenda come accade troppo spesso in molte storie della serie.

Il tono pessimista del racconto è reso dal tratto ruvido e realistico di Angelo Stano, disegnatore di alcune delle storie più importanti di Sclavi, impreziosito dalle suggestioni cromatiche di Giovanna Niro che riescono ad alienare il lettore e fungono da veicolo emotivo. Particolarmente efficace la sequenza catastrofica nella quale la metro ammantata di un gelido blu prorompe nel rassicurante rosa della quotidianità londinese mentre il rosso della violenza e del pericolo accompagna le sequenze più cruente. Il Dylan di Cavenago in copertina si dissolve nel multiverso ad esaltarne la versatilità diegetica e interpretativa e la caratterizzazione sfuggente.

Il 22 marzo è la data scelta da Sclavi per la fine del mondo. E’ il primo giorno di primavera (curiosamente, lo scorso 22 marzo si è verificato un attentato terroristico proprio a Londra), ancora ad indicare un inizio e un principio. Groucho, seppur somministrato col contagocce, è gigantesco e risolutivo nel fornire al lettore la chiave di decodificazione della vicenda.

In qualche modo si torna anche ai temi de La Zona del Crepuscolo dove l’incapacità di morire degli abitanti mesmerizzati di Inverary rendeva la loro esistenza priva di scopo, come una serie a fumetti che procede per forza d’inerzia con storie prive d’autorialità e fervore creativo. “E’ la banalità sublime”, diceva il professor Hicks di Inverary. “L’inutilità eretta a sistema, il nonsenso totale. L’idea di dover morire fa sì che ci affanniamo per trovare uno scopo all’esistenza. Eliminata quell’idea, anche l’affanno scompare.” L’idea di una fine, di un’entropia, può quindi avere valenza salvifica e restituire un significato a tutto.

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