Detroit di Kathryn Bigelow | Recensione
Pubblicato il 26 Novembre 2017 alle 15:00
Il nuovo film di Kathryn Bigelow ci racconta, fra cronaca e finzione, gli scontri di Detroit del 1967: fra il 23 e il 27 luglio di quell’anno la città del Michigan divenne una vera e propria zona di guerra, una guerra combattuta fra la popolazione di colore e la polizia.
“That’s why the city is filled with a bunch of fucking idiots still/ That’s why the first motherfucker popping some shit he gets killed/That’s why we don’t call it Detroit, we call it Amityville”.
Così, in uno dei brani del suo album-capolavoro The Marshall Mathers LP, Eminem (probabilmente il più grande artista di sempre emerso dalla città del Michigan) riassumeva la violenta identità di una metropoli spietata. Ci sarà spietatezza in Detroit, nuovo film di Kathryn Bigelow, con gli spazi interni che diventeranno teatro di efferati omicidi (come in Amityville Horror di Rosenberg) ma ci sarà anche la musica (conosceremo Larry Reed e i Dramatics, gruppo di musica soul che proprio in quel luglio del ’67 stava iniziando ad emergere), come se non fosse possibile che esca altro da quelle strade, se non violenza o arte.
Detroit, luglio 1967. Una festa privata in un bar privo di licenza per alcolici viene interrotta bruscamente da una retata della polizia. E’ notte fonda e tutto il quartiere si sveglia, l’aria è piena di elettricità, qualcuno urla agli sbirri di tornarsene da dove sono venuti, bottiglie e pietre iniziano a volare verso le volanti. E’ la scintilla che fa divampare l’incendio, o la fatidica goccia del fatidico vaso traboccante: fatto sta che la popolazione nera insorge, e la polizia non si tira indietro.
Il film è un’opera corale che nella prima parte, oltre a raccontarci la genesi della rivolta cittadina, è intenzionato soprattutto a presentarci i protagonisti della vicenda (tutte persone realmente esistite): abbiamo il già citato Larry Reed (Algee Smith), giovane cantante con un sogno nel cassetto, e i membri della sua band, i Dramatics; abbiamo Melvin Dismukes (John Boyega), che di giorno lavora in fabbrica e di notte piantona un negozietto per difenderlo dai saccheggiatori; abbiamo Philip Krauss (Will Poulter, armato delle sue mastodontiche sopracciglia), agente della polizia di Detroit che forse nel bel mezzo di tutto quel caos cittadino si diverte più di quanto dovrebbe.
Mentre la notte si fa sempre più violenta le varie linee narrative convergono una ad una all’interno delle mura dell’Algiers Motel, dove sarà ambientata tutta la parte centrale del film (che muterà pelle ancora una volta per l’atto finale, assumendo le fattezze di un thriller procedurale).
La regista di The Hurt Locker sembra più intenzionata a riflettere sulla stupidità umana (e come quella stupidità, unita all’ignoranza e all’intolleranza, possa portare al caos, sia sociale che – soprattutto – giuridico) piuttosto che giudicare le colpe e gli errori di due schieramenti (cittadini e poliziotti), dato che, da un certo punto in avanti, la Bigelow deciderà di schierarsi rinunciando ad una più obiettiva neutralità.
La struttura camaleontica della sceneggiatura di Mark Boal (alla terza collaborazione con la regista dopo The Hurt Locker e Zero Dark Thirty) è riprodotta bene dalla regia frenetica della Bigelow (fatta quasi completamente di camera a mano, che ci porta all’interno della vicenda, a sudare con i protagonisti, a sanguinare con loro, a temere per la loro vita), espertissima quando si tratta di inscenare la guerra, di farci sentire la fatica, di farci respirare la polvere.
Ed è di guerra che si parla in questo film, poco importa che ci troviamo negli Stati Uniti d’America: c’è l’esercito, ci sono i carri armati, ci sono i soldati di ritorno dal Vietnam (bella la citazione a Il Cacciatore nella prima scena) e soprattutto ci sarà il dramma del disturbo da stress post-traumatico tipico dei war-movie.
O per lo meno ci sarà per chi riuscirà a sopravvivere alla notte.