Mudbound di Dee Rees | Recensione

Pubblicato il 26 Novembre 2017 alle 20:00

Dopo la presentazione al Sundance Film Festival, arriva su Netflix il nuovo film della regista di Pariah.

Passa per Netflix uno dei migliori film dell’anno, Mudbound, la cui uscita strategica alle soglie della stagione dei premi lo pone come serio contendente per gli Oscar 2018.

E’ un film raro e memorabile quello realizzato dalla regista di Nashville Diandrea Rees, che rapisce lo spettatore fin dal suo prologo, un flashforward strabiliante e marcatamente noir che lascia intravedere attriti e rancori serbati forse troppo a lungo: dopo la promettente scena iniziale compare il titolo, bianco su schermo nero, e da lì il film si trasforma in un fiume in piena che scorre senza sosta fino ai titoli di coda.

Tennesse, 1939. Laura (Carey Mulligan) è una trentunenne vergine che inizia a ricevere le attenzioni di Henry McAllan (Jason Clarke), un ambizioso imprenditore di buone prospettive. Lei, nonostante creda di essere attratta dal fratello minore di Henry, Jamie (Garrett Hedlund), decide di sposarlo e insieme i due avranno due figlie: insieme al padre di Henry, Pappy McAllan (Jonathan Banks) acquisteranno una fattoria in Mississipi, dove si trasferiranno.

Un appezzamento di quella stessa terra nel delta del Mississipi è proprietà di Hap Jackson (Rob Morgan), un fiero fattore di colore che ha ricomprato il terreno che i suoi antenati hanno lavorato per generazioni come schiavi. Hap vive lì con sua moglie Florence (Mary J. Blige) e i figli, il più grande dei quali, Ronsel (Jason Mitchell), dovrà partire per l’Europa quando gli Stati Uniti entreranno in guerra in risposta all’attacco di Pearl Harbor.

Il film segue quindi le vicende familiari dei McAllan e dei Jackson, sia nel fango del terreno condiviso da Henry e Hap, sia nell’Europa vessata dalla Seconda Guerra Mondiale (anche Jami McAllan si arruolerà, e combatterà nei cieli come aviatore mentre Ronsel sarà a terra nei ventri dei carri armati): contrasti, differenze di status sociale, classismo, ma forse anche comprensioni e addirittura speranze d’avvicinamento e amicizia, sono gli aspetti che verranno fuori dall’incontro di queste due quotidianità così diverse eppure così simili fra loro, quotidianità marcate da una sfumatura di pelle differente ma dallo stesso sudore, dalle stesse mani infangate per il lavoro nei campi, dallo stesso desiderio di portare cibo in tavola la sera, quando il sole tramonta e arriva la pioggia.

Mudbound è un film corale, ma della migliore fattura, di quelli che concede ai tanti protagonisti un ampio spazio di manovra, di approfondimento e (in alcuni casi) anche di evoluzione. I monologhi interiori di Laura, di Jaime, di Ronsel, di Hop, di Florence, di Henry sono soliloqui poetici (ma anche naturali) in voice over che ci fanno entrare nelle teste, nei cuori e negli animi di tutti i personaggi, concedendoci un punto di vista onnisciente sulle loro vite e di conseguenza tante chiavi di lettura differenti per poter comprendere le loro motivazioni e le loro filosofie di vita.

Mudbound è una grande epopea bifamiliare con sfumature da tragedia shakespeariana: proveremo empatia e un forte senso di disagio, rabbia e voglia di giustizia, sentimenti che quest’opera, magnificamente interpretata, meravigliosamente scritta, splendidamente fotografata (Rachel Morrison si rifà al Terrence Malick de I Giorni del Cielo e al Roger Deakins di Sicario e L’Assassinio di Jesse James Per Mano Del Cordardo Robert Ford) e diretta in modo impeccabile saprà suscitare in ogni spettatore, al di là del colore della sua pelle.

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