Saw: Legacy di Michael e Peter Spierig | Recensione

Pubblicato il 2 Novembre 2017 alle 15:00

L’astuto serial killer Jigsaw sembra essere tornato dalla tomba nell’ottavo capitolo del fortunato franchise horror.

Nonostante il settimo capitolo avesse promesso ai fan la conclusione della saga (il titolo, opportunamente scelto, recitava Saw 3D – Capitolo Finale), il machiavellico villain John Kramer torna ancora una volta in Saw: Legacy, film che rimescola le carte in tavola e ripropone al pubblico nuove stanze della morte, nuove torture e nuove indagini, che sotto il periodo di Halloween non fanno mai male.

Il perché è ovvio: il franchise di Saw è sempre stato molto remunerativo (costato 10 milioni di dollari, questo nuovo capitolo ne ha già incassati 30), e se hai una gallina dalle uova d’oro l’unica cosa sensata da fare è quella di tenerla al caldo nel pollaio, non certo tirarle il collo per farci il brodo: che quella gallina ormai sia vecchia e stanca e si trascini esangue senza gioia nello sguardo e senza la minima voglia di continuare a vivere, beh, poco importa, giusto?

Se non fosse già abbastanza chiaro la gallina della metafora di cui sopra rappresenta ovviamente questa saga (che è anche la prova vivente di come si possano ricavare ben sette sequel banali da un’ottima idea di partenza, ma che James Wan è un genio tanto a fare film quanto a venderli lo sapevamo già), saga che con Saw: Legacy gira in tondo senza andare da nessuna parte.

A bordo salgono i gemelli Spierig, registi australiani amanti dell’horror che all’attivo possono vantare i buoni Daybreakers e Predestination (ma anche il pessimo Undead): il film è ambientato 10 anni dopo la morte di Jigsaw, che anche dalla tomba sembra essere in grado di fare il birbante e infatti mentre la polizia inizia a trovare corpi mutilati in tutta la città, cinque sventurati si risvegliano in un vecchio granaio e vengono iniziati ai giochi perversi dello psicotico torturatore (ma è fondamentalmente una brava persona, il buon vecchio John Kramer, perché non vuole altro che le sue vittime confessino le proprie malefatte).

L’indagini in città proseguono parallelamente alle torture nel granaio e alla fine le due storyline si ricollegano con un colpo di scena che è un po’ figlio del primo Saw e un po’ arrampicata sugli specchi necessaria per dare un minimo di senso a quello che viene mostrato al pubblico per ’90 minuti. Le torture e i marchingegni ideati dal cattivo vacillano fra il ridicolo e il già visto, e osservando le nuove vittime prescelte e le sfide che devono affrontare di volta in volta, si ha la sensazione che non solo gli sceneggiatori (Pete Goldfinger e Josh Stolberg) abbiano perso l’ispirazione, ma che perfino Jigsaw inizi ad essere più ripetitivo che fantasioso.

I buoni livelli raggiunti nel mettere in scena il gore e la violenza grafica potrebbero soddisfare gli amanti del genere, per lo meno quelli che rientrano nella fascia d’età fra i quattordici e i sedici anni, ma non giustificano la narrazione schematica, ripetitiva e noiosa che sembra la brutta copia dei police procedural o uno spin-off cinematografico ed iperviolento di Cold Case.

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