IT: perché l’adattamento TV non è una brutta trasposizione
Pubblicato il 20 Ottobre 2017 alle 13:45
La serie tv del 1990 è stata denigrata dalla critica ma si è imposta fortemente nell’immaginario collettivo. Ecco un paio di motivi per i quali non è affatto male e merita di essere considerata un cult.
In attesa di vedere (finalmente) la trasposizione cinematografica su It realizzata da Andres Muschietti (che abbiamo qui recensito in anteprima) abbiamo voluto rivedere la serie tv del 1990, che fino ad ora rappresentava l’unica trasposizione del capolavoro letterario di Stephen King del 1986.
Personalmente, sono stato spinto a rivedere la miniserie tv un po’ in conseguenza della febbre da It che, con l’uscita in sala del film, sta colpendo tutti gli appassionati, e un po’ a causa dei continui richiami dei critici alla scarsa qualità di questa trasposizione.
C’è da premettere una cosa: la miniserie su It realizzata da Tommy Lee Wallace (registra anche del non fortunato Halloween III) è uno dei miei primi ricordi d’infanzia (anche se questo non sarà un elemento capace di togliere oggettività all’ analisi). Così come per molti della generazione nata tra gli anni ’80 ed i primi ’90 Pennywise ha rappresentato uno dei miei primi boogeyman, forse quello più rappresentativo.
07. HOW “IT” HAPPENED (COME TUTTO È COMINCIATO)
Ricordo ancora molto bene la pubblicità di Mediaset che annunciava la prima visione della miniserie in Italia. Ricordo mio fratello (di qualche anno più grande di me) che si affrettava a trovare una videocassetta per registrarcela sopra. Fu suo proposito negli anni (in attesa del dvd che avrebbe acquistato nei primi del 2000) cercare la registrazione perfetta: ogni volta che la miniserie veniva trasmetta in televisione tagliava gli stacchi pubblicitari al momento giusto, cercava la qualità impeccabile dell’immagine del canale. Così, nel corso degli anni, ebbi casa riempita di videocassette su It. Spesso mi bastava leggere sul bordo della registrazione quelle due semplici lettere scritte a penna per provare un po’ di paura.
Riuscii per la prima volta a vedere interamente la miniserie nel periodo della pubertà. Ma in un modo o nell’altro parti di quella trasposizione televisiva erano entrate a far parte della mia immaginazione già molto tempo prima. Furono la mia prima introduzione al mondo di Stephen King, che dai quindici anni in poi divenne il mio compagno di lettura preferito. E negli anni la ripetuta visione della miniserie divenne una sorta di tappa.
Rividi It del 1990 a 16 anni assieme ad un amico del liceo (che in un mese aveva letto tutte le 1300 pagine del libro). Nonostante la figura di Pennywise mi avesse accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza lessi il romanzo solo a 18 anni. Impiegai circa tre mesi per completare la lettura (la presi con calma). Quando la conclusi era trascorsa un’intera estate, e la malinconia di inizio settembre si affiancava a quella per aver dovuto salutare anche Bill, Bev, Ben e tutta la banda dei perdenti.
Rividi tutta la miniserie a 22 anni durante una serata di Halloween trascorsa con gli amici, nel corso della quale la scelta del film horror da vedere ricadde proprio sulla storia di Pennywise e del club dei perdenti. Già allora mi colpì molto il fatto che tre ore di film passarono via in maniera molto rapida, ed i difetti tipici di una trasposizione televisiva non mi erano sembrati tanto pesanti da condizionarne la visione.
Così, a circa sei anni di distanza da quell’ultima volta, nei giorni scorsi ho ripreso tra le mani quel dvd e l’ho riguardato.
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06. CIRCOLARITÀ DELLA NARRAZIONE
Ciò che mi ha colpito fin dall’inizio è stato il notare che, nonostante siano evidenti i difetti ed i problemi che può portare con sé una trasposizione televisiva del 1990, la scrittura del film ed il senso della narrazione sono impeccabili. La sovrapposizione delle linee temporali (con i perdenti da bambini ed i perdenti da adulti) viene sì divisa quasi nettamente in due parti, ma non mancano le sovrapposizioni (presenti anche nel romanzo), e la soluzione funziona così bene da non creare affatto confusione.
L’inizio della trasposizione con il Mike Hanlon adulto che assiste all’ennesimo misterioso caso di omicidio funziona bene: la giornata uggiosa, la polizia raccolta intorno al luogo del delitto, il poliziotto che dice a Mike di non impicciarsi di questioni che non sono di sua competenza evocano una perfetta apertura da film noir. Inoltre questa sequenza, grazie ad un piccolo ma significativo particolare, dà il via a quella sovrapposizione di linee temporali che verrà spesso richiamata nel film, creando quella circolarità della narrazione che è uno degli aspetti più positivi della serie tv.
Il Mike Hanlon adulto trova una foto del piccolo George (il fratellino di Bill ucciso da It) sul luogo dell’ultimo efferato delitto avvenuto a Derry, a trent’anni dalla sua morte. Questa sequenza darà il via ad un flashback in cui verrà mostrata la morte di George: una scena che metterà in evidenza anche l’importanza del personaggio di Bill Denbrough (attorno al quale ruoteranno tutti i momenti cardine del film).
La circolarità dell’esperienza di Bill viene sottolineata e richiamata più volte con grande attenzione nella serie tv: la scena del Bill 12enne, che prepara la barchetta per il fratellino George, viene anticipata da un piccolo piano sequenza in cui viene ripresa la madre di Bill, intenta a suonare Per Elisa di Beethoven al pianoforte. La stessa scena verrà richiamata nel finale della seconda parte, prima che Bill, Beverly, Richie, Ben ed Eddie abbandonino l’albergo nel quale Henry Bowers ha gravemente ferito Mike. Il richiamo delle note di Per Elisa convincerà il Bill adulto a restare a Derry, per combattere Pennywise un’ultima e definitiva volta.
Al di là del fatto che questi aspetti della narrazione sono stati introdotti dal libro di King, la circolarità nella sovrapposizione delle linee temporali è un elemento molto delicato per le trasposizioni su schermo, che questa miniserie tv riesce a far funzionare.
E così la sequenza col Bill dodicenne, che chiede disperatamente aiuto agli amici per combattere It, viene sovrapposta a quella del Bill adulto che si rivolge ancora una volta ai propri compagni. L’effetto di circolarità delle azioni e della narrazione torna e s’imprime nella mente dello spettatore.
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05. RECITAZIONE
Un punto sul quale si sono soffermati molti critici è stata la prestazione scadente degli attori. C’è da dire che nonostante si trattasse di attori televisivi, molti di essi erano già celebri (o lo sarebbero diventati) grazie a buone prestazioni sul piccolo schermo (ad esempio, la Beverly adulta Annette O’Toole sarà la Martha Kent di Smalville . Mentre John Ritter, che interpreta Ben da grande, all’epoca della miniserie tv era già popolare per essere stato tra i protagonisti di Tre Cuori in Affitto, e aver vinto un Golden Globe ed un Emmy Award). Il livello di recitazione perciò regge bene l’impatto su una serie tv, e non sfigura nemmeno se paragonato ad una produzione cinematografica standard di un film horror di quegli anni.
In particolare, la prova attoriale dei piccoli perdenti (anche questa denigrata), nonostante veda impiegati attori che avranno poca fortuna in futuro, riesce ad essere credibile nella parte più delicata dell’intera storia. Il piccolo Bill (recitato dallo sfortunato Jonathan Brandis, morto suicida a 27 anni) regge su di sé l’impatto emotivo di molte scene: tra tutte spicca quella (richiamata poco prima) nella quale si rivolge in lacrime al gruppo dei perdenti, chiedendo loro di combattere insieme It.
Ben Heller convince nell’interpretazione del preciso e razionale Stan, mentre il Ben Hanscom 12enne (impersonato da Brandon Crane), nonostante non sia convincente in tutte le espressioni, non stona affatto. Ottima anche la recitazione del giovane Richie, interpretato da Seth Green (tra i pochi ad avere avuto un futuro come attore e doppiatore) i cui tempi di battuta (ad esempio nella scena in cui chiede aiuto in mensa dopo essere stato aggredito dal lupo mannaro) funzionano e tolgono più di un sorriso. Forse non è stata molto efficace la scelta di Emily Perkins, la quale ha interpretato una Bev bruttina e spesso piagnucolosa, che non riesce ad essere carismatica e trascinante come dovrebbe.
Funziona invece la banda di Henry Bowers, anche se il confronto con i cattivi di Stand By Me (e con l’iconica prova di Kiefer Sutherland nel ruolo di Asso) mette in evidenza qualche limite.
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04. TIM CURRY
Questa è la nota positiva che trova consenso unanime nella critica. Un attore iconico come Tim Curry non poteva tradire l’efficacia di un personaggio della portata di Pennywise, anche se forse Curry è andato al di là, personalizzando ancora di più la figura del pagliaccio malvagio. Nonostante la produzione televisiva limitasse l’impatto e la sanguinolenza delle scene horror, la forza di Tim Curry è stata quella di far leva sull’ironia macabra del clown (un po’ come Robert Englund fece con Freddy Krueger), elevando il carisma e l’impatto scenico del personaggio.
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03. SCENE ICONICHE
L’ormai classica scena del tombino con protagonisti il piccolo George è entrata a far parte dell’immaginario collettivo (vuoi anche grazie al talento narrativo di King che l’ha meticolosamente descritta nel romanzo). La trasposizione della scena sul piccolo schermo è funzionale: la fotografia non incupisce troppo l’atmosfera, ma nemmeno la rende macchiettistica ed eccessivamente televisiva. La messa in scena è semplice, e dà ampio spazio alla recitazione di Tim Curry che la fa da padrone con dei primi piani che ne esaltano le espressioni. Ma merito di Tommy Lee Wallace è stato soprattutto quello di creare un buon climax, alzando la tensione al momento giusto: con un primo piano di chiusura sul Pennywise dai denti aguzzi (togliendo per ovvie ragioni di censura tutta la parte riguardante George con il braccio mozzato).
Molto efficace è anche la scena in cui il piccolo Ben si ritrova nei Barren davanti al padre defunto (che si trasformerà in Pennywise nel giro di qualche inquadratura). Una fotografia semplice, televisiva, in puro stile anni ’90, riesce ad essere efficace, ed a rappresentare in maniera totalmente naturale i colori ed i contrasti della situazione: una giornata di sole, una radura ombreggiata, l’acquedotto dai richiami goticheggianti, ed un clown sghignazzante con un palloncino in mano.
Interessante è anche la scena in cui la Bev adulta entra nella sua vecchia casa d’infanzia, accolta da una simpatica vecchietta (la quale successivamente si rivelerà essere lo stesso Pennywise). Il modo in cui le sequenze e gli stacchi di camera giocano sui cambiamenti dei dettagli funziona molto bene e inquieta: i denti marciti della vecchietta ed il tè nella tazza che si trasforma in sangue fanno il loro effetto.
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02. DIFETTI
Certo. Chiunque dica che la serie televisiva su It è un prodotto di qualità non eccelsa non dice una sciocchezza. Si tratta di una miniserie che col passare degli anni fa notare sempre di più i limiti di budget che hanno portato a scenografie, cast, e scelte di censura che l’hanno resa una versione annacquata del romanzo di King.
E sicuramente a pagare più di tutti è la scena finale nella quale la visione del mostro extraterrestre (con la battaglia trascendentale e psicologica tra It e la Tartaruga) viene resa con la messa in scena di un ragno gigante da B-Movie (uscito fuori da una pellicola kaiju giapponese) ripreso in stop motion. Una scelta alquanto imbarazzante, ma che, nonostante tutto, non rovina le precedenti due ore e cinquanta di visione.
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01. UNA PROMESSA MANTENUTA NEL TEMPO
Insomma la miniserie tv su It del 1990 è una produzione low budget che mostra tutti i suoi difetti ed i suoi limiti, ma allo stesso tempo è una trasposizione di un libro iconico di 1300 pagine che mantiene un senso del racconto lineare e sensato. La circolarità con la quale la narrazione viene condotta non tradisce il romanzo di King, e molti dei momenti importanti della storia vengono messi in scena in maniera efficace.
Il Pennywise di Tim Curry visto oggi non fa paura come vent’anni fa (soprattutto agli occhi di un quasi trentenne come il sottoscritto), ma il senso di quella promessa che il club dei perdenti fece a sé stesso (ed anche al me bambino) non è stato tradito. Quel desiderio di ritrovarsi un giorno senza perdere la purezza di sé stessi mi è rimasto dentro, ed è intatto all’interno di questa pellicola.
It del 1990 continua a essere il ricordo delle avventure di quei ragazzini e di quegli ambienti che vedevo così simili a me ed alla piccola città di provincia in cui vivevo (e vivo tutt’oggi), e simboleggia i ricordi di quei brividi semplici ma puri che il tempo continua a non tradire. Una promessa mantenuta nel tempo.