L’Uomo di Neve di Tomas Alfredson | Recensione

Pubblicato il 14 Ottobre 2017 alle 20:00

Michael Fassbender è il protagonista del terzo film di Tomas Alfredson, trasposizione dell’omonimo bestseller firmato dallo scrittore norvegese Jo Nesbø.

Era una delle più potenti, evocative e poetiche immagini che l’arte cinematografica del 21esimo secolo abbia prodotto, quella del neonato che succhiava il latte dalla madre appena uccisa che si vedeva nella prima scena de La Talpa (2011), magistrale spy-movie tratta da John le Carrè. Prima ancora Tomas Alfredson aveva folgorato tutti col suo film d’esordio, il romantico e glaciale Lasciami Entrare (2008), da molti considerato l’horror del secolo (anche in quel caso si era trattato di un adattamento).

A quasi dieci anni da quell’indimenticabile opera prima il regista svedese torna con il thriller L’Uomo di Neve, e per forza di cose le aspettative erano davvero altissime, come altissima era la curiosità di vedere se Alfredson sarebbe stato capace di realizzare la sua personale tripletta (con un’altra sceneggiatura adattata da un romanzo) e siglare così una filmografia tanto striminzita quanto invidiabile.

Purtroppo, non è stato così.

Se Michael Fassbender (aiutato da un’ottima Rebecca Ferguson) ce la mette tutta nel cercare di far emergere le tante sfaccettature del personaggio principale (il detective Hole, il miglior investigatore di Oslo, asso nel risolvere casi irrisolti ma pieno di dubbi e fantasmi personali, e l’attore è la cosa migliore del film) lo stesso non si può dire degli sceneggiatori Hossein Amini (Drive, Il Traditore Tipo) e Peter Straughan (L’Uomo che Fissa le Capre, candidato all’oscar per La Talpa), entrambi espertissimi ma qui evidentemente in affanno.

Com’è in affanno Alfredson, che fin dal confusionario prologo appare un lontano parente di se stesso: magari suggerire che in questi sei anni sabbatici ci si può scordare come si dirige un thriller è andarci giù troppo pesante, ma sicuramente il regista svedese è tornato a lavoro un po’ arrugginito e al di là di qualche composizione particolarmente felice (il totale sul lago ghiacciato negli ultimi attimi del film, la carrellata per seguire il tram, l’occhio elegante col quale spesso la cinepresa osserva le finestre delle abitazioni invadendo la privacy dei personaggi) quel che emerge da L’Uomo di Neve è una narrazione blanda, priva di vigore e poco coinvolgente, abbellita qui e là dagli affascinanti panorami norvegesi.

Ci si rifà alle atmosfere severe e cupe di David Fincher (Seven, Zodiac, Uomini che Odiano le Donne) ma invece di introiettarle e riplasmarle (come aveva fatto benissimo Denis Villeneuve con Prisoners) Alfredson tenta goffamente di imitarle, fallendo. Se e quando il detective Harry Hole tornerà al cinema per un’altra indagine (su di lui Jo Nesbø ha incentrato ben undici romanzi) dubito fortemente che sarà per mano del regista svedese, e dubito anche che avrà il volto di Fassbender.

Gli elementi per un thriller d’antologia c’erano tutti, ma nessuno di questi è riuscito ad incastrarsi a dovere. Un vero peccato.

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