Justice League: rinascite e ripartenze

Pubblicato il 17 Novembre 2017 alle 14:00

Superman è morto. Lunga vita a Superman.

C’era urgente bisogno di un cambio di rotta in casa DC: i toni cupi e intellettualmente ambiziosi su cui Zack Snyder aveva impostato Man of Steel e Batman v Superman non erano stati apprezzati da tutti (né a livello di critica né a livello di pubblico), e il clip musical del concept-album Suicide Squad diretto da David Ayer non era piaciuto praticamente a nessuno.

E se con Wonder Woman ci si era più o meno arresi al modello Marvel (i supereroi sono una cosa seria, ma il pubblico di questi film a profonde riflessioni o parabole mitologiche preferisce farsi una risata in più) con Justice League la DC ammette le proprie colpe, chiede scusa a tutti e, come Bruce Wayne, si rimbocca le maniche e riparte verso un più radioso futuro con un affascinante sorriso sghembo stampato sul viso.

In appena due ore a Justice League riesce il miracolo di far rinascere questo barcollante universo cinematografico, e lo fa riscrivendo da zero i personaggi di Superman e Batman, presentando ben tre nuovi eroi (Aquaman, Flash e Cyborg, messi in vetrina per i futuri film stand-alone) e riempiendo la scorrevolissima narrazione (non ci si ferma neanche un secondo) con elementi che allargano a dismisura la mitologia DC (Darkseid, le scatole Madri, le Lanterne, Atlantide, Luthor, Deathstroke, i Nuovi Dei, il commissario Gordon).

Il casus belli che convincerà Batman e Wonder Woman a reclutare Aquaman, Flash e Cyborg (e a resuscitare Superman) è l’arrivo sul pianeta Terra di Steppenwolf, un facsimile di Sauron l’Oscuro Signore (una scena in particolare sembra un estratto della battaglia di Dagorlad narrata nel prologo de La Compagnia dell’Anello) che vuole impadronirsi delle tre scatole madri per terraformare il mondo ecc ecc (tutto già visto, okay, tutto già sentito, bene).

Eppure, al di là dei difetti (che ci sono, ma sono i difetti della maggior parte dei cinecomic: trama banale, villain adimensionale e CGI debole), il film è vincente perché non solo ha un’estetica riconoscibile e di buon gusto (che è il punto debole di Whedon) ma soprattutto ha un cuore, ha un’anima (che è il  punto debole di Snyder) e in questo modo riesce a cavalcare coi piedi in due staffe un po’ come un’esperta amazzone: gli elementi comedy di Whedon si sposano bene al talento visivo di Snyder, la storia, tagliuzzata a dovere, nella sua semplicistica linearità scorre liscia senza se e senza, si ride, ci si meraviglia, si fa il tifo e si vince. E ci si commuove, perfino, un aspetto niente affatto scontato in film del genere.

Senza dubbio si poteva fare meglio, ma di certo si poteva fare anche molto, molto peggio. Perché da una produzione così travagliata era quasi utopistico aspettarsi un prodotto così chiaro e coerente. E invece, eccoci qua, in trepidante attesa di vedere ciò che arriverà in futuro (film stand-alone a parte, tutti molto interessanti, magari farebbe comodo armarsi di un po’ di chiarezza, cominciando dal contratto di Ben Affleck).

Se Superman è Dio, come Snyder ci ha detto in passato, allora Dio è morto e il mondo sta andando alla malora (nel prologo, molto snyderiano con in sottofondo Everybody Knows, la scomparsa di Kal-El viene associata a quella di Bowie e Prince, un vero tocco di classe): è un po’ la metafora di questo universo cinematografico, che proprio come Superman rinasce, magari un po’ confuso inizialmente ma via via più consapevole e anche più sorridente.

Tutti sono felici di avere una seconda possibilità, del resto.

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