Valerian e la Città dei Mille Pianeti – Recensione

Pubblicato il 26 Settembre 2017 alle 22:56

28° secolo. Valerian e Laureline sono due agenti spazio-temporali del Governo dei Territori Umani incaricati di mantenere l’ordine nell’universo. Il loro comandante, Arun Flitt, viene rapito quando una razza aliena attacca la megalopoli intergalattica di Alpha, dove vivono specie provenienti da tutto l’universo. Valerian e Laureline dovranno risolvere un mistero che minaccia la Città dei Mille Pianeti.

Possono scattare in automatico paragoni tra Valerian e la Città dei Mille Pianeti e space opera in voga quali Star Wars e Guardiani della Galassia. Si può obiettare che la bande-dessinée di Pierre Christin e Jean-Claude Mézières è stata seminale per la saga di George Lucas influenzando a sua volta il brand Marvel. Per il cinecomic di Luc Besson è quindi legittimo, a chiusura di un simbolico cerchio, un impianto visivo sontuoso quanto derivativo, con qualche elemento fanta-tecnologico originale, forte di 200 milioni di euro di budget spesi in casa ILM e Weta Digital.

E’ sul piano narrativo che l’opera dell’immaginifico Luc Besson non riesce a dire nulla di più degli altri due franchise pur restando fedele quanto più possibile al materiale originale. Peccato per il tradimento nel titolo cinematografico che, in sfregio al girl power dominante, non fa menzione di Laureline, molto più carismatica, nell’interpretazione di Cara Delevingne, della controparte maschile, l’imberbe faccino simil-DiCaprio di Dane DeHaan.

Il mistero alla base della storia è prevedibile e puerile come un giallo di Scooby-Doo ed è fin troppo facile intuire chi sia il vero cattivo. Forzoso l’inserimento di una parentesi fine a se stessa per mettere sullo schermo un divertito Ethan Hawke e Rihanna nel ruolo di una mutaforma, pretesto per vedere la pop-star in svariate versioni sexy, poi maldestramente intellettualizzata con una citazione di Shakespeare.

Il sense of wonder e lo sguardo fanciullesco di Besson non trovano riscontro in una regia poco ariosa, dall’afflato epico ridotto al lumicino e il contesto diviene a lungo andare barocco, ai limiti del kitsch. Giustificabile la retorica ecologista e pacifista, stucchevole la didascalia sull’amore che fa il paio con quella de Il Quinto Elemento.

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