Kingsman: Il Cerchio d’Oro – Recensione

Pubblicato il 22 Settembre 2017 alle 23:23

La potente organizzazione criminale del Cerchio d’Oro, guidata dalla folle Poppy Adams, distrugge il quartier generale dei Kingsmen ed uccide tutti i suoi agenti. Eggsy e Merlino, unici sopravvissuti all’attacco, si alleano con la Statesman, controparte statunitense dei Kingsmen, per salvare il mondo dalla minaccia di un virus letale. Qui, Eggsy scopre che il suo mentore Harry Harty è ancora vivo ma in preda ad amnesia.

Matthew Vaughn, il regista dei cinecomics più cartoon-style di quanto lo siano i fumetti da cui sono tratti, ha finalmente deciso di dirigere un sequel. Ha realizzato una trasposizione pregevole, seppur concettualmente infedele, da Kick-Ass di Mark Millar e si è limitato a produrre il fallimentare secondo episodio. Ha rilanciato i mutanti Marvel con X-Men: L’inizio ed ha soltanto scritto il successivo Giorni di un Futuro Passato. E’ tornato all’opera di Millar adattando Secret Service in una pellicola che ha smesso di avere a che fare col fumetto dopo cinque minuti.

Kingsman: Secret Service è stato la risposta di Vaughn allo 007 iperrealistico di Daniel Craig riportando sense of wonder ed elementi pop nell’immaginario del mondo spionistico anglosassone. Il regista si è trovato talmente bene nell’universo dei Kingsmen che, per la prima volta, ha voluto dirigere non solo un sequel ma anche il terzo episodio già in cantiere.

C’è una filosofia alla base di questo nuovo episodio che desta qualche irritazione. I Kingsmen diventano di fatto americani. Vengono letteralmente spazzate via le radici britanniche degli agenti segreti e gli unici due superstiti vengono inglobati nella Statesmen. Vengono così introdotti i nuovi agenti. Jeff Bridges, capo dell’organizzazione; Channing Tatum, la cui presenza sullo schermo è piuttosto breve; Pedro Pascal (Game of Thrones, Narcos), nuovo action man; e Halle Berry che fa il paio con Mark Strong. Infatti uno dei due è di troppo.

Il primo episodio reggeva su un buon equilibrio tra il contesto realistico e quello più stilizzato e fantascientifico. Qui la componente cartoon prende troppo il sopravvento mettendo in scena un impianto visivo ai limiti del kitsch, quasi al pari di un Batman di Schumacher. La villain interpretata da Julianne Moore sembra uscita più da un episodio della serie tv anni ’60 di Batman che da un film di 007, con un covo che è un’accozzaglia di citazioni della cultura pop di quegli anni ed Elton John che fa la caricatura di se stesso.

La componente emotiva che, nel capostipite, era costituita dal rapporto tra Taron Egerton e Colin Firth viene qui riesumato, quasi alla lettera, ma è chiaro che la dinamica tra i due non abbia più niente da dire e Firth è spinto a forza nella storia.

Vaughn cerca di conservare lo spirito politicamente scorretto che ha contraddistinto il capostipite ma non riesce a tirar fuori una sequenza sovversiva come quella iconica del massacro in chiesa nella quale Firth faceva strage di fanatici religiosi e conservatori.

Si ha la sensazione che Vaughn abbia lasciato la moderata sartoria dei Kingsmen per un’ubriacante distilleria americana perdendosi per una durata eccessiva di due ore e venti tra giocattoli, gadget, robot e ogni altra stravaganza dettata da effetti digitali mediocri, procedendo più con la mente offuscata dal whisky che col cuore e la pancia che avevano decretato il successo dell’originale.

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