Riverdale Stagione 1 | Recensione
Pubblicato il 8 Ottobre 2017 alle 15:00
The CW rilegge in chiave moderna una serie classica del fumetto americano: Archie. L’adattamento di Roberto Aguirre-Sacasa e Greg Berlanti gli renderà giustizia?
Lo scorso gennaio avevo riccamente snobbato Riverdale. Un teen drama targato The CW “gettato” nella mischia delle serie ispirate ai personaggi DC Comics – che di drama ne hanno fin troppo – non mi aveva stuzzicato così tanto da imbarcarmi nella visione pur tenendo presente che, fortunatamente, la prima stagione si sarebbe composta di soli 13 episodi.
Poi complice la ricerca di qualcosa di “leggero” da vedere durante le afose serate estive è scattato il binge watching a dirla tutta senza troppe aspettative e pretese.
La sorpresa è stata totale. Non sottovalutate Riverdale e soprattutto non pensate a Riverdale solo come un teen drama.
Facciamo un passo indietro: Riverdale è basato sui personaggi Archie Comics i quali vengono pubblicati da più di 75 anni e le cui avventure sono ambientate nella piccola cittadina di Riverdale dove a farla da padrone, con una buona dose di commedia, è il triangolo amoroso fra Archie Andrews ed il duo Betty e Veronica.
La serie TV ribalta completamente le premesse della serie a fumetti: il triangolo amoroso infatti passa in secondo piano mentre al centro del plot viene posto il misterioso omicidio di Jason Blossom compagno di scuola di Archie e rampollo della ricca famiglia Blossom.
Il tono della serie è tutt’altro che scanzonato anzi fa leva su quella morbosità da piccola cittadina universalmente applicabile dove il pettegolezzo e l’apparenza la fanno da padroni.
L’etichetta di teen drama quindi sfuma verso il drama a tutto tondo della più classica tradizione televisiva americana. Da un lato infatti si recuperano alcuni stilemi dei capisaldi del genere teen drama – da Dawson’s Creek a O.C. ma anche i più recenti Gossip Girl e Pretty Little Liars – basti vedere la caratterizzazione da ragazza della porta accanto di Betty o quella da outsider proveniente dalla grande città i Veronica, dall’altro gli sceneggiatori riescono a compenetrare gli elementi adolescenziali con le vicende degli adulti – con le immancabili famiglie in lotta – fra cui spicca un Luke Perry (Dylan in Beverly Hills 90210) in grande spolvero nei panni del padre di Archie.
Nel corso dei 13 episodi non solo il plot si infittisce, costellato di rivelazioni e twist piazzati in maniera strategica e mai fini a sé stessi, innervando così il drama di una buona dose di murder mystery che pur trovando una risoluzione nell’episodio finale ma che apre anche interessanti, ed attuali, scenari per la seconda stagione.
Altro punto a favore della serie è la volontà di puntare sui personaggi. Se trame estremamente complesse ed articolate sono il mantra della serialità televisiva moderna, Riverdale invece preferisce mettere al centro dell’attenzione il quartetto composto da Archie, Jughed, Betty e Veronica rendendoli parte integrante dello sviluppo della trama. I 4 ragazzi infatti saranno assolutamente pro-attivi nei confronti dell’elemento scatenante – l’omicidio di Jason Blossom – divenendo strumentali per risolverne il mistero e scoprirne i retroscena.
Ai 4 protagonisti inoltre viene fornito lo spazio necessario per crescere e maturare nel corso dei 13 episodi, uno su tutti Jughead che da outsider introverso e da personaggio marginale e di supporto diventa centrale nella narrazione e sarà quello che, in definitiva, verrà investito maggiormente dai cambiamenti che la piccola cittadina attraverserà in seguito al fatto delittuoso.
Una cosa è fondamentale sottolineare: seppur i protagonisti sono adolescenti la serie non cade quasi mai nel banale – non possono mancare ovviamente momenti più scanzonati con balletti e qualche canzoncina – ma la formula della serie trova un equilibrio perfetto evitando sviolinate eccessivamente sentimentali o drammatiche.
Ad esempio il tema della musica è trattato in maniera sorprendentemente realistica: Archie è dubbioso se continuare a giocare a football o proseguire nello studio del canto e della chitarra, il padre ovviamente propenderà per la prima opzione più solida e capace di garantirgli l’ingresso al college. Esempio semplice ma calzante, e con cui chiunque si può facilmente relazionare, della volontà degli sceneggiatori di mantenere un taglio moderno e sincero.
Da questo punto di vista gli sceneggiatori sono così sicuri della loro formula da poter trattare subito – già al terzo episodio – elementi di giustizia sociale: nell’episodio in questione si affronta il tema dello slut-shaming attraverso i social network. Il risultato è un episodio tosto – con special guest Shannon Purser già nota per il suo di Barb Holland nella prima stagione di Stranger Things – lontano anni luce dall’imperante politically correct.
Degno di nota è anche l’episodio finale di stagione che non solo sfoga una buona dose di ormoni quasi tenuti a stento a bada durante tutta la stagione ma termina con un inaspettato cliffhanger sul quale sicuramente gli sceneggiatori costruiranno un nuovo mistero per la seconda stagione e sul quale potranno innestare anche una serie di riflessioni e temi sociali.
Ottima anche la regia che adotta soluzioni semplici puntando sul ritmo e su alcune soluzioni mutuate dalle grandi serie del passato una su tutte Twin Peaks soprattutto per l’utilizzo spesso straniante dei flashbacks e dei soliloqui interiori dei personaggi. La fotografia algida e illuminata da luci al neon sembra invece rifarsi a certe pellicole di Brian De Palma, Ridley Scott e più recentemente Nicholas W. Refn accentuando così certe atmosfere opprimenti e sinistre che si sposano con la spina dorsale, il murder mystery, della serie.
Più che O.C. o Dawnson’s Creek quindi Riverdale assomiglia al quel gioiello passato pressoché inosservato nel nostro paese che fu Friday Night Lights in cui l’elemento adolescenziale era centrale ma non soverchiante e soprattutto veniva trattato in maniera matura e “vera”.