Monolith: l’incubo di diventare genitori
Pubblicato il 13 Agosto 2017 alle 13:25
Dopo Come Non Detto e 2Night, Ivan Silvestrini torna al cinema con Monolith, versione cinematografica del progetto crossmediale targato Sergio Bonelli Editore.
Qualche mese fa: in occasione del Napoli Comicon vi avevo parlato in anteprima del “secondo tempo” di Monolith, apprezzatissimo volume conclusivo del romanzo grafico firmato da Roberto Recchioni, Mauro Uzzeo e Lorenzo Ceccotti. La Bonelli qualche giorno dopo lancia il libro sul mercato. Tripudio. Fuochi d’artificio. Titoli di coda.
Stacco. Flashforward.
Oggi: siccome la vita è un circolo, eccomi di nuovo qui a parlarvi in anteprima di Monolith, di Ivan Silvestrini; ed eccoci di nuovo in quella maledetta strada polverosa, sotto quel maledetto sole cocente, in mezzo a quei maledetti lupi, davanti a quella maledetta macchina.
Tutto è ugualmente meraviglioso e terribile, solo che stavolta ogni cosa è anche incredibilmente reale. Del resto ora Sandra non è più un “semplice” pezzo di pagina colorato ma una persona in carne ed ossa (la bravissima Katrina Bowden), per la quale è ancora più facile fare il tifo, o provare angoscia, o avere paura.
E di paura c’è da averne tanta, nel corso del film.
Rimasta bloccata fuori dalla Monolith, la macchina più sicura al mondo, Sandra non può far altro che guardare attraverso il finestrino oscurato il suo unico figlio, David, intrappolato nel seggiolino sui sedili posteriori. Intorno a loro il deserto. Sopra di loro il fuoco del sole. Niente acqua. Niente cibo. E più David rimane all’interno dell’auto, più la sua pelle continua ad abbrustolire.
Per Sandra inizia una corsa contro il tempo – e contro i propri limiti – per riuscire a superare la corazza indistruttibile della Monolith e salvare il suo bambino da una morte tanto certa quanto dolorosa.
Allora, il film non è perfetto e sicuramente non è un capolavoro indiscusso e indimenticabile, ma è comunque bellissimo.
Innanzitutto è coraggioso – non si vede tanto spesso roba del genere in Italia – ma soprattutto è fatto col cuore: ogni fotogramma non solo rievoca le splendide tavole di Ceccotti, ma sprizza anche tutta la passione di questo giovane cineasta per l’arte del cinema.
E’ un film di coraggio e grinta, di sudore, di gemiti (la Bowden, nel ruolo di questa madre a volte insicura altre volte feroce, oscilla in continuazione fra una performance fisica e gutturale ad un’altra più intima, più calorosa, più drammatica) di calore, di labbra screpolate e pelle ustionata.
Il discorso sulla possibilità di pericolo nascosta dietro le tecnologie avveniristiche non sarà originale, né illuminante magari, ma nella sua semplicità funziona in maniera chiara e diretta. D’altro canto, non è certo l’elemento fantascientifico a caricarsi il peso del film sulle spalle, anzi, quello semmai è un gradito contorno. Il piatto principale è il rapporto genitori/figli, che qui diventa ancora più specifico e viscerale perché madre/figlio.
Sandra non è una madre perfetta, come d’altronde nessuna madre lo è mai stata o può sperare di esserlo. La perfezione è rappresentata da Lilith (come il femmineo demone mitologico), il computer di bordo della Monolith, e ho letteralmente adorato il parallelismo fra donna e macchina: l’insicurezza di Sandra è amplificata dinanzi alla sicurezza monocromatica della Monolith, impenetrabile e indistruttibile e freddissima quando invece la donna si stanca, si ferisce, si surriscalda (emotivamente e non).
Il monolite nero (più sinuoso rispetto a quello di 2001 e molto più piccolo in confronto a quelli di Arrival) qui non è simbolo di mistero (Kubrick) né portatore di verità (Villeneuve), ma diventa una metafora tanto dell’utero materno quanto del nido familiare.
Se nella nostra società l’iperprotettività di una madre rischia di soffocare il figlio a livello umano, emotivo e/o intellettuale (i famosi mammoni), nel mondo di Monolith quella stessa iperprotettività finisce col soffocare letteralmente.
E’ un’idea insieme affascinante e terribile, che funziona e fa funzionare l’intero film. Che è sicuramente uno dei migliori prodotti del cinema nostrano degli ultimi anni, e che si spera possa alimentare quella rivoluzione di genere iniziata nel 2015 con Lo Chiamavano Jeeg Robot.
In attesa di vedere cosa ci riserberà il futuro, non resta che fare i complimenti a tutti.