Preacher 2×08: “Holes” | Recensione
Pubblicato il 9 Agosto 2017 alle 15:00
“Mordimi! Mordimi! Mordimi!”
Anche Jesse, questa settimana, avrà un breve esaurimento nervoso a causa degli eccessivi rallentamenti che sta subendo la sua ricerca di Dio. Se il Padre Eterno non vuole essere trovato e il tuo obiettivo è proprio quello di trovarlo, è naturale che qualche imprevisto c’è da metterlo in conto: il problema è che gli eccessivi rallentamenti della ricerca di Jesse appiattiscono il procedere della trama.
Direi che la scelta di aumentare il numero di episodi in questa stagione (13, invece dei 10 della precedente) stia iniziando ad assomigliare sempre di più ad un piccolo errore di calcolo, se non fosse che per la maggior parte del tempo si ha la sensazione che la volontà di Sam Catlin e dei suoi sceneggiatori sia proprio quella di far immedesimare il pubblico nella noiosa stasi in cui è piombato il nostro predicatore. Fatto sta che i tempi morti iniziano a diventare sempre più frequenti e quello che era iniziato come un fantasy-horror on the road, in Holes è stato declinato a dramma psicologico (che va anche bene, per carità, ma il pubblico al quale si rivolge questa serie potrebbe essere in cerca di ben altro).
Come ogni buon dramma psicologico, qui i buchi (holes, appunto) non sono solo quelli che i proiettili del Santo degli Assassini hanno lasciato negli appartamenti del palazzo in cui risiedono attualmente Jesse, Cassidy e Tulip, ma anche e soprattutto quelli che improvvisamente sono comparsi nelle vite dei tre compagni d’avventura.
Jesse, come detto, è completamente svuotato psicologicamente a causa dei continui insuccessi nel trovare indizi che possano metterlo sulle tracce di Dio; Tulip, ancora scossa dopo essere stata ad un passo dalla morte, si sente una scatola vuota, tanto nei confronti del partner quanto nei confronti di se stessa; Cassidy, infine, deve convivere con un’enorme voragine nello stomaco chiamata rimpianto.
E infatti il punto forte dell’ottavo episodio di Preacher 2 è proprio la sotto-trama legata a Cassidy e il suo vecchio figlio morente, Denis. Il dilemma del nostro sboccatissimo vampiro-tossico preferito è che, essendo immortale, adesso si ritrova più giovane di suo figlio (o almeno uno dei suoi figli, chissà quanti ne ha avuti in passato e quante altre volte ha vissuto questa situazione) e deve assistere inerme alla sua malattia. Il paradosso, invece, è che potrebbe renderlo immortale trasformandolo in un vampiro, ma se che facendolo lo destinerebbe ad una non-vita che è peggio della morte.
Per una volta, a Joseph Gilgun viene chiesto di mettere da parte il lato comico-demenziale di Cassidy e mostrare quello umano, quello sentimentale. Ne viene fuori un’ottima prova, convincente e drammatica, che raggiunge il suo massimo nel confronto con Tulip in cucina. La regia intelligente si può riassumere in una sola immagine: l’inquadratura finale a figura intera, che dipinge alla perfezione tutta la lontananza (fisica, sentimentale e psicologica) che separa la donna e il vampiro.