Annabelle 2: Creation – Recensione

Pubblicato il 14 Agosto 2017 alle 22:08

Stati Uniti, anni ’40. Alcuni anni dopo la tragica morte della figlia, un costruttore di bambole e sua moglie accolgono nella loro casa Suor Charlotte e le ragazze di un orfanotrofio ormai chiuso. Tra loro c’è Janice, cui la poliomielite ha lasciato un handicap alla gamba, che dovrà vedersela con Annabelle, una bambola posseduta da un demone.

Annabelle 2: Creation è la storia di una bambola posseduta dallo spirito di una bambina che vuole possedere l’anima di un’altra bambina. O qualcosa del genere. Se non fosse sufficiente a farvi capire che tipo di prodotto avete di fronte, aggiungiamo che Annabelle 2: Creation è il prequel di uno spin-off di The Conjuring, perno centrale dell’universo horror condiviso creato da James Wan. E sono in arrivo altri capitoli collaterali su una suora, un Uomo Storto e chissà quale altra amenità. Si tratta di una saga che, in linea di massima, ha avuto finora due mezzucci facili per portare il pubblico in sala con riscontri al botteghino ben al di sopra dei suoi meriti oggettivi.

Primo: si tratta di una saga “tratta da fatti reali”. Sono parecchi i figli di Adam Kadmon disposti a credere alle inchieste “documentate” dei coniugi Ed e Lorraine Warren secondo le quali i due ricercatori del paranormale avrebbero esorcizzato i demoni della celebre Amityville, un assassino posseduto, un lupo mannaro, un paio di spettri in altrettanti cimiteri oltre, appunto, ad aver certificato la possessione della bambola Annabelle. Fatti reali. Certo.

Secondo: i jumpscares. Si tratta di quegli eventi improvvisi e spaventosi, accompagnati da un deciso aumento del volume della musica e da bruschi effetti sonori, che fanno saltare il pubblico dalla sedia. Il panorama indipendente del cinema horror sta andando in una certa direzione proponendo prodotti innovativi che stanno rappresentando il vero rinascimento del genere. The Witch, Babadook, It Follows, Get Out, tanto per citarne alcuni, sono film che hanno bisogno di una chiave di decodifica su più livelli di lettura, riescono ad insinuarsi sotto la pelle del pubblico, ci restano anche quando la luce in sala si riaccende e ve li portate a casa con voi per ritrovarli nei vostri incubi.

Quando un horror non ha niente da dire e l’unico interesse è quello di arrivare alla pancia (e al portafogli) della gente, è sufficiente cucinare un bel minestrone di cliché facilmente riconoscibili e fare qualche “Bù!” per far sussultare il pubblico dallo spavento. Poi lo spettatore si fa una bella risata per stemperare, riprende a mangiare i pop-corn e finisce lì. Non resta niente. Paura un tanto al chilo. Questo è l’universo horror di James Wan, né più né meno.

Il regista David F. Sandberg si è fatto conoscere con Lights Out – Terrore nel buio, tratto dal suo stesso cortometraggio, horror remunerativo nonostante gettasse alle ortiche il buon concept di base con uno sviluppo men che mediocre (stiamo parlando del regista che dirigerà Shazam! per la DC-Warner). Qui si limita a mettere in scena una serie di topoi: la bambola indemoniata, la casa sperduta e isolata in uno scenario rurale, la bambina investita da un auto nel prologo, le ragazze dell’orfanotrofio con l’emarginata di turno e una suora interpretata dalla Bond Girl Stephanie Sigman, sexy come le suore sanno esserlo solo al cinema. Tratto da fatti reali dicevamo.

Non c’è alcun sottotesto che valga la pena di analizzare, solo una trametta-compitino di superficie che si preoccupa di inserire agganci per i prossimi spin-off, un forzoso tappabuchi di continuity nell’epilogo e indovinate un po’ cosa c’è durante i titoli di coda? Sandberg commette inoltre l’errore di preferire gli effetti digitali a quelli pratici con risultati molto meno efficaci, raccapriccianti e realistici. Se parliamo di bambole assassine, molto meglio il buon vecchio Chucky. Si prendeva poco sul serio ma faceva molta più paura.

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