Fino all’Osso di Marti Noxon | Recensione Netflix
Pubblicato il 17 Luglio 2017 alle 20:00
Lily Collins e Keanu Reeves sono i protagonisti del nuovo film prodotto da Netflix.
Produttrice esperta e sceneggiatrice di una certa fama, la losangelina Marti Noxon esordisce alla regia con Fino all’Osso, nuovo dramedy targato Netflix che ha debuttato al Sundance Film Festival 2017 prima di approdare sulla piattaforma di streaming on demand qualche giorno fa.
Evidentemente la Noxon (che ha sceneggiato tantissimi episodi di Buffy l’ammazzavampiri e pure il lungometraggio Fright Night, nel quale Colin Farrell è un famelico vampiro della porta accanto) deve avere una passione per i succhiasangue, se ha deciso di esordire alla regia con un soggetto come questo. Naturalmente non troverete mostri sovrannaturali o non-morti dai lunghi canini affilati in Fino all’Osso. Però c’è un’antagonista che ti succhia via la vita, fino a trasformarti in un fantasma: l’anoressia.
Ellen (Lily Collins) è una giovane ventenne che soffre di gravi disturbi alimentari. Conosce la quantità esatta di calorie che ogni singola pietanza ingerita porterà nel suo organismo, e dopo ogni pasto (per quanto esigue) sottopone il proprio corpo ad estenuanti sessioni di attività fisica che le impediscano di ingrassare. Non c’è una vera e propria causa per il suo comportamento: la sua madre biologica ha scoperto di essere lesbica e si è trasferita con un’altra donna, però Ellen ha vissuto con loro per tanto tempo e vuole bene ad entrambe; vuole bene anche alla nuova moglie di suo padre (un padre totalmente assente che non vedremo mai) e soprattutto alla sua sorellastra (bello il cast del personaggio di Kelly, interpretata da Liana Liberato, le cui guance paffute risaltano la magrezza della Collins).
Forse però Ellen si sente colpevole per qualcosa. Qualcosa che forse è successo quando frequentava il college, che ora ha mollato a causa dei suoi problemi di salute (e si, se vi piacciono i misteri qui ne troverete uno, sebbene non abbia molta importanza ai fini narrativi).
Problemi di una salute che continua a peggiorare, e così la madre adottiva (una tenerissima e un po’ squinternata Carrie Preston) decide di portarla da uno specialista, il dottor William Beckham (Keanu Reeves), che si dice sia il migliore sulla piazza nonostante i suoi metodi poco ortodossi.
Ma il dottor Beckham non si avvicinerà mai agli eccessi del Terence Fletcher di J. K. Simmons in Whiplash. I suoi metodi poco ortodossi consistono soltanto nel dire qualche parolaccia di troppo, essere schietto coi pazienti e l’aver istituito una sorta di casa comune nella quale ricoverare quei suoi pochi pazienti che, secondo lui, hanno davvero intenzione di guarire. E dopo una breve visita, capisce che Ellen è degna di essere reclutata.
Il paragone con Whiplash non è casuale. Fino all’Osso avrebbe beneficiato davvero delle atmosfere corrosive ed ossessive del film di Chazelle, ma la Noxon non è interessata tanto al disturbo compulsivo di cui soffre Ellen, quanto alle emozioni che Ellen prova.
Dalla didascalia iniziale del film (che ci avverte che l’opera, per essere il più realistica possibile, è stata realizzata seguendo i consigli di persone afflitte da disturbi alimentari, e che quindi potrebbe urtare la sensibilità del pubblico più impressionabile) ci si aspetterebbe un film crudo, quasi documentaristico, una sorta di Requiem for a Dream per anoressici. Invece la Noxon realizza un teen-movie che è un po’ storia di formazione e un po’ love story, contestualizzandolo nel mondo degli anoressici.
E’ un film che non si chiede il perché Ellen si sia ridotta così, un film al quale non importa trovare spiegazioni. Alla Noxon interessa scoprire in che modo una persona con delle abitudini pericolose possa riuscire a trovare il modo giusto per capire se stessa e aiutarsi a stare meglio e andare avanti. La tesi del film – portata avanti dal personaggio di Reeves – è che il mondo si limita a darci degli stimoli (una famiglia che ci vuole bene, degli amici, magari una persona speciale che è innamorata di noi) ma siamo noi a doverli cogliere, a doverli apprezzare e sfruttarli per guarire da qualunque condizione ci affligga.
Per certi versi è un film che funziona bene (ci affezioniamo facilmente ad Ellen e ai suoi compagni di terapia) ma è troppo poco pungente, troppo anonimo. C’è uno strano retrogusto di occasione sprecata intorno al film, perché l’argomento trattato dal soggetto avrebbe giovato di un maggiore impatto grafico per imprimersi nelle menti degli spettatori. Come dice il dottor Beckham, toccare il fondo è importante per risalire, e infatti Aronofsky (che sa sconvolgere) ci martellava continuamente con le braccia tumefatte da tossico di Jared Leto, il cui personaggio in Requiem toccava il fondo più e più volte.
Qui, invece, ci si accontenta che Ellen tocchi il fondo una sola volta (nell’umiliante scena di “allattamento”, la migliore del film), e per il tipo di film che Fino all’Osso vuole essere, quell’unica volta è sufficiente. Un peccato, perché si poteva fare molto di più.