Recensione – The Bad Batch, con Jason Momoa, Jim Carrey e Keanu Reeves

Pubblicato il 4 Luglio 2017 alle 15:00

La seconda regia di Ana Lily Amirpour è un allucinato dramma esistenziale ambientato in un mondo post-apocalittico popolato da tribù cannibali.

“You can’t enter the dream unless the dream enters you” è solo una delle tante evocative insegne che troverete sparse per la post-apocalittica città di Confort. Ma per scoprire chi o cosa sia The Dream dovrete addentrarvi nei pericoli dello spietato mondo di The Bad Batch, un mondo fatto di deserti e baraccopoli e vite spezzate e cannibali.

Pensate. Il primo film della Amirpour (il sofisticato e romantico horror/spaghetti western A Girl Walks Home Alone At Night) ha avuto un tale successo di critica che la regista iraniana-britannica naturalizzata statunitense ha potuto beneficiare, per la sua seconda, estraniante regia, di un cast a dir poco invidiabile: Jason Momoa, Keanu Reeves e Jim Carrey si sono buttati a capofitto nella visione estrema della Amirpour, accettando ruoli tutt’altro che convenzionali. Ci sono pure Diego Luna (Star Wars: Rogue One) e Giovanni Ribisi nel “bad batch”, l’angolo oscuro di un Texas distopico dove vengono gettati tutti i rifiuti della società e dove regnano soltanto i più forti.

Arlen (la meravigliosa esordiente Suki Waterhouse) viene bandita dal Texas all’inizio del film e deportata nel Bad Batch. Assalita da un gruppo di cannibali della baraccopoli Ponte, Arlen viene privata di un braccio e di una gamba ma riesce a fuggire prima di essere divorata completamente.

Stremata e in fin di vita, viene soccorsa da un misterioso viandante (Jim Carrey) che la scorta fino a Confort, l’altra baraccopoli del Bad Batch, dove gli abitanti si nutrono di conigli d’allevamento e noodles.

Ma Arlen sente di non appartenere a quel posto, e nonostante i pericoli adora avventurarsi nelle terre desolate che separano le due baraccopoli. Inoltre, vuole farla pagare ai maledetti cannibali che si sono mangiati i suoi arti.

Nei campi lunghissimi orchestrati dalla regista il deserto per Arlen diventa una gabbia a cielo aperto che si estende da orizzonte ad orizzonte, e il cannibalismo una truculenta metafora di una società spietata che divora i più deboli. Ci sono sabbia e merda e pomodori e LSD, filosofi con un harem di donne incinte armate di fucili automatici e artisti cubani deportati a causa di permessi di soggiorno irregolari: tutto è estremamente non solo plausibile ma anche spaventosamente attuale.

Immaginate Il Buono, Il Brutto e Il Cattivo con una bionda per protagonista ambientato in un mondo alla Mad Max coi cannibali e qualche elemento di Romeo e Giulietta, quindi prende il tutto e lasciatelo reinterpretare da Sergio Corbucci e poi re-reinterpretare da Nicolas Winding Refn.

Infine aggiungete un pizzico di droghe allucinogene e a quel punto sarete solo a metà del viaggio.

Un viaggio che, all’opposto del Fury Road di Miller (dal quale arriva la protagonista “furiosa” e implacabile, ma anche fragile e umanissima), vuole esaltare l’atmosfera e il sentimento più che la spettacolarizzazione del momento.

La trasognata performance muta di Jim Carrey, metà assurda e metà tragica, sembra perfetta per riassumere l’intero film: la scena alla discarica nella quale il suo personaggio interagisce con quello di Momoa senza che i due scambino una sola battuta è cinema allo stato puro.

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