Recensione – L’Infanzia di un Capo, di Brady Corbet

Pubblicato il 3 Luglio 2017 alle 15:00

Premiato a Cannes 2015 per la miglior regia nella sezione Orizzonti e con il Leone del Futuro per la miglior opera prima, arriva in Italia il folgorante esordio del giovanissimo regista statunitense Brady Corbet.

Fino all’altro ieri era un attore (forse lo ricorderete nei panni di Tim in Melancholia di Von Trier) il neanche trentenne Brady Corbet, che un bel giorno ha letto Sartre, ha letto Il Mago di Fowles, ha visto Barry Lyndon di Kubrick, Dies Irae di Dreyer e Il Nastro Bianco di Haneke e ha deciso di mettere tutto insieme nella sceneggiatura di L’Infanzia di un Capo. E, dulcis in fundo, ha poi deciso di dirigersela da solo, quella sceneggiatura.

Il risultato è un film destabilizzante, che è un dramma familiare e un racconto di formazione oscuro e un thriller psicologico affilato, tutto insieme, tutto mescolato con l’ipnotica e spaventosa colonna sonora di Scott Walker (un po’ avanguardista e un po’ classicheggiante) e condensato in poco meno di due ore.

Pensato come una tragedia o un’opera, con overture, tre atti e una magistrale, indimenticabile chiusa, L’Infanzia di un Capo racconta la storia di Prescott (ma anche quella dei membri della sua famiglia, visti esclusivamente con gli occhi del protagonista), un bambino problematico destinato a un grande futuro (diventerà il Capo del titolo del film, ma dovrete scoprire per conto vostro chi o cosa capeggerà).

Prescott (Tom Sweet) è il figlio di un importante funzionario statunitense (Liam Cunningham, ser Davos de Il Trono di Spade) e di una ricca donna francese (Bérénice Bejo, che abbiamo visto ne Il Destino di un Cavaliere, ma anche e soprattutto in The Artist): la famiglia è costretta a trasferirsi in Francia quando il padre di Prescott, che lavora per il presidente Woodrow Wilson, viene scelto come leader di una delegazione impegnata nella stesura del Trattato di Versailles.

L’Europa della Grande Guerra però è soffocante per Prescott, costretto a vivere una vita monotona all’interno della grande casa francese: coi genitori poco amorevoli (e forse entrambi adulteri) le uniche persone con le quali Prescott può avere un qualche legame sono la vecchia e gentile governante Mona e la giovane insegnante di francese Ada.

Ma c’è qualcosa di oscuro in Prescott, che in quella casa, senza l’affetto dei genitori, diventa sempre più irrequieto, sempre più ribelle, sempre più violento.

La vera finezza della sceneggiatura di Corbet è l’insinuazione (insinuazione, non dichiarazione, ecco perché il film è così elegante) che nessuno nasce malvagio o crudele: la causa dei mali del mondo è scatenata da un nucleo familiare corrotto, marcio e decadente. In questo senso è amaramente ironico che il Trattato di Versailles metterà sì fine alla Prima Guerra Mondiale, ma scatenerà qualcosa di gran lunga peggiore.

La regia poi vanta una grandeur esacerbata dal ridottissimo budget, e se in Hemingway il clima e le stagioni rispecchiavano lo stato d’animo del protagonista, qui il grigiore dell’anaffettiva famiglia è sottolineato dalla mestizia degli interni, dal bagliore tenue delle luci, dalle stanze silenziose. E tutto contrasta col fuoco interiore che divampa nell’instabile Prescott, animato da una violenza improvvisa ed esplosiva che, forse, segnerà il destino di molti.

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