Transformers: L’Ultimo Cavaliere – Recensione

Pubblicato il 25 Giugno 2017 alle 22:53

Tutti i paesi della Terra, ad eccezione di Cuba, hanno dichiarato i Transformers fuorilegge ed hanno istituito l’organizzazione militare TRF (Transformer Reaction Force) per eliminarli. Mentre gli Autobot e i Decepticon continuano a combattere in tutto il mondo, tra i resti di Chicago, Cade Yeager, Bumblebee e la giovane Izabella trovano un Transformer morente, Cavaliere di Cybertron, che affida loro un talismano. Nel frattempo, Optimus Prime giunge su Cybertron e viene catturato dalla maga Quintessa che gli fa il lavaggio del cervello scatenandolo contro i suoi stessi alleati Autobot.

La saga cinematografica dei Transformers altro non è che il più sofisticato e costoso spot pubblicitario mai realizzato per una linea di giocattoli. Non a caso, il franchise è stato affidato a Michael Bay che si è fatto le ossa proprio come regista di spot televisivi. Michael Bay e i Transformers hanno in comune l’essere figli dell’era reaganiana. I robot trasformabili della Hasbro nascono nel 1984, in piena presidenza Reagan, e Bay può essere definito l’erede di Tony Scott nel mettere sullo schermo quell’edonismo a stelle e strisce spiccatamente repubblicano.

Lo strapotere cinematografico, economico, perfino quello militare, statunitense esplodono e divengono un tutt’uno nel cinema di Bay, uno dei pochi registi in circolazione davvero capaci di sfruttare il pieno potenziale delle tecnologie che gli vengono messe a disposizione e i suoi film sono tra i pochi che meritano davvero la visione in IMAX e 3D. I budget stratosferici sono tutti sullo schermo, il magniloquente occhio registico è alla costante, dinamica ricerca di enfasi epica, gli effetti digitali sono lo stato dell’arte, la fotografia è tesa ad esaltare ogni frame. I Transformers non sono che una sintesi di tutto questo, lussuosi bolidi da corsa che si trasformano in giocattoloni-soldati, esseri ipertecnologici creati, appunto, dalle migliori tecniche digitali.

Una piccola digressione. Alcune saghe devono il loro successo al fatto di essere state dirette per intero dallo stesso regista. Altre hanno funzionato proprio perché il testimone è passato per le mani di diversi cineasti. I casi sono diversi. Ritorno al futuro ha goduto dello sguardo univoco di Robert Zemeckis come pure Indiana Jones con Spielberg, ad eccezione del quarto capitolo. La trilogia di Matrix, diretta per intero dai fratelli (ora sorelle) Wachowski ha subito una flessione fin dal secondo episodio. La trilogia originale di Star Wars, ad oggi la più amata della saga, è passata per le mani di tre registi diversi. Se Il Signore degli Anelli di Peter Jackson è un capolavoro, altrettanto non si può dire del suo prequel Lo Hobbit, cui forse avrebbe giovato la diversa sensibilità di Guillermo del Toro che avrebbe dovuto inizialmente dirigerla. La serie di Alien ha avuto successo grazie all’alternarsi di autori dalla distinta cifra stilistica e il ritorno al franchise di Ridley Scott non sta dando i frutti sperati a scapito di quell’Alien 5 di Neill Blomkamp che non verrà più realizzato.

Ecco, la sensazione è che Michael Bay avrebbe dovuto lasciare i Transformers dopo il terzo episodio. La portata della mastodontica battaglia di Chicago, realizzata con l’aiuto di James Cameron, era la summa del suo cinema, resta ad oggi insuperata e chiudeva al meglio la trilogia. Bay, invece, ha deciso di tornare per un quarto episodio nel quale non aveva più molto da dire. Ha cambiato protagonista, passando da Shia LaBeouf a Mark Wahlberg, ha buttato dentro qualche Dinobot ma era ovvio che il film non potesse reggere il confronto con il capitolo precedente.

A questo punto, Bay aveva deciso di lasciare. Stando ad una recente intervista, il regista ha cambiato idea perché la Paramount gli ha finalmente messo a disposizione una writer’s room, un team di sceneggiatori che richiedeva da tempo. Lo ha fatto per accontentare quei fan del franchise cui piace credere che una saga cinematografica fatta per mettere robot che si pestano sullo schermo abbia davvero qualcosa da dire sul piano narrativo. Ed è qui che Bay si è dato la zappa sui piedi.

Stanley Kubrick pensava che la potenza del linguaggio cinematografico sta nell’azione e nella musica e sognava di realizzare un film privo di dialoghi. George Miller, regista della saga di Mad Max (che si ascrive a quelle serie di cui sopra, interamente e magistralmente diretta dallo stesso regista), sposa il pensiero di Hitchcock affermando che si giunge ad una vera sintesi cinematografica quando un film può essere fruito in tutto il mondo senza la necessità di sottotitoli.

Per Bay la sceneggiatura dovrebbe essere solo la traccia su cui dare libero e continuo sfogo alla sua estetica. Ha deciso invece di incatenare, soffocare la sua visione sotto il manto asfissiante della trama. Dalle idee uscite dalla writer’s room, Bay ne ha scelta una, il produttore Steven Spielberg ne ha scelta un’altra e le hanno combinate in un indigesto pasticcio.

Il timbro di Spielberg si vede. C’è il tema della famiglia, portante in tutte le sue opere, nel rapporto tra Wahlberg e la figura filiale Izabella. C’è un contraddittorio metaforone sociopolitico che mette in contrasto il democratico Spielberg con il repubblicano Bay. I Transformers, Autobot e Decepticon, diventano tutti degli immigrati perseguitati dal governo. E’ altresì vero che l’obiettivo dei protagonisti è quello di fermare Cybertron, il loro pianeta di provenienza, prima che distrugga la Terra. Insomma, aprite le frontiere ai messicani ma andiamo a bombardare il Messico.

C’è la parabola fantastorica iniziata negli episodi precedenti che mescola qui il mito arturiano (appena rivisitato da Guy Ritchie nel suo King Arthur e lo ritroveremo anche in qualche prossimo blockbuster) alla componente fantascientifica. E c’è un Inglorious Bumblebee che dà fuoco ai nazisti (cosa buona e giusta) in un flashback di venti secondi che sarà costato più di tutta la filmografia di Kevin Smith.

Affiancato dalla versione psicopatica di C-3PO, Anthony Hopkins cerca di risolvere un Codice Da Vinci intergalattico coadiuvato da John Turturro, ridotto a poco più di un cameo, e da Laura Haddock. Ma Bay è talmente concentrato ad esaltarne le labbra carnose, gli occhi azzurri, gli zigomi marcati, i dettagli anatomici e le movenze sensuali da distrarre il pubblico da qualunque spiegone le esca di bocca.

In linea con l’attuale trend degli eroi contro, dopo Batman contro Superman, Captain America contro Iron Man, Vin Diesel contro il suo team di Fast & Furious, qui abbiamo Optimus Prime contro Bumblebee in una scazzottata che non mantiene le promesse sul piano coreografico.

In definitiva, i fan della saga continueranno a pascersi in stupidate insignificanti, faranno il conto dei Transformers morti, parteciperanno a forum interminabili sulla scena durante i titoli di coda e staranno davvero a domandarsi come proseguirà una storia che non ha alcuna importanza. I cinefili dal palato fino apprezzeranno ancora una volta l’estetica di Bay ma resteranno indispettiti dalla pretesa di imbastire una sceneggiatura puramente fan service. Il pubblico più generalista che non fa parte né dell’una né dell’altra categoria bollerà il film come la solita “americanata” o il consueto “giocattolone” di Michael Bay senza capire che deve essere esattamente tutto questo. Per queste ragioni è ora che Bay si affranchi dal franchise Transformers e si dedichi ad altro per poter essere finalmente apprezzato come si deve.

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