Recensione – Netflix – Lo Spazio che ci Unisce
Pubblicato il 16 Giugno 2017 alle 15:10
Un giovane cresciuto su Marte si innamora di una terrestre coetanea nel nuovo film di Peter Chelsom.
Ho terminato la visione di Lo Spazio che ci Unisce davvero affaticato, col fiatone e la fronte imperlata di sudore. Perché è un film talmente avvincente da coinvolgerti fino allo stremo? Assolutamente no, anzi.
Se vorrete arrivare fino ai titoli di coda, e Dio solo sa perché, allora vi converrà fare prima il pieno di energia, perché l’apatico film di Chelsom è un vampiro assetato che vi succhierà ogni forza vitale, e inizierà a farlo fin dai primissimi minuti.
Il protagonista del film (Asa Butterfield) è il figlio orfano di un’astronauta che è partita per colonizzare Marte, lo ha messo al mondo nello shuttle ed è morta di parto; Gardner (questo il nome del ragazzino) passa i suoi primi sedici anni sul pianeta Rosso, con la sola compagnia degli altri quattordici membri dell’equipaggio. Solo che un giorno, grazie ad una chatroom, conosce Tulsa, una giovane e intelligente ragazzina del Colorado.
A questo punto l’allupato Gardner vorrà tornare a tutti i costi sulla Terra: gli altri marziani non possono permetterglielo, per via della sua densità ossea, ma lui è deciso e ci torna lo stesso e una volta arrivato sul pianeta Blu che tutti quanti noi conosciamo e amiamo, il caro ragazzino incontrerà la cara ragazzina e apriti cielo.
In caso ve lo steste ancora chiedendo, no: il film non mi è piaciuto per niente.
Peter Chelson è la mente dietro indimenticabili esponenti dell’arte del cinema come Serendipity, Amori in Città … e Tradimenti in Campagna e il mio favorito in assoluto, Hannah Montana: The Movie, e se ci aggiungiamo una sceneggiatura di Alan Loeb (autore del recente Collateral Beauty, altra perla di titolo) avremo un film assolutamente insipido, privo di qualsivoglia motore emotivo, strapieno però di twist incommensurabilmente ridicoli, che invece di avere un effetto catartico riusciranno soltanto a strapparvi uno sbadiglio (se, per qualche ambiguo motivo, non vi sarete addormentati prima).
Fra i tanti problemi quello che spicca maggiormente (non che gli altri siano ben nascosti, sia chiaro) è senza dubbio l’essenza derivativa del film: tutto quello che vedrete è già stato visto da qualche altra parte o è già stato raccontato (molto meglio di così) in qualche altra opera, recente o passata che sia; santo cielo, perfino Gary Oldman è un derivato di Jeff Bridges.
Non sto scherzando: guardate bene Gary Oldman, sembra davvero Jeff Bridges. E più lo guardavo più pensavo a Starman, di John Carpenter. O a The Martian. O a Interstellar. Perfino a Guardiani della Galassia 2. Insomma, a qualsiasi cosa che non fosse questo film.
Comunque sulla Terra, come se non bastasse, il film diventa pure un on the road (a Chelson questa volta non bastava realizzare soltanto un insulso sci-fi, voleva proprio strafare) e Gardner e Tulsa partiranno per un viaggio attraverso gli Stati Uniti dell’Ovest, durante il quale visiteranno Las Vegas e arriveranno in California, ruberanno auto e ci daranno l’occasione di notare le tantissime incongruenze del mondo creato da Chelson e company.
Non mi piace buttare benzina sul fuoco, o sparare alla croce rossa, o una qualsiasi altra metafora del genere che vi possa venire in mente, ma purtroppo questo è il mio lavoro e suppongo che debba pur parlarvi di qualcosa in questo articolo, giusto?
Okay, quindi: perché, se siamo sedici anni nel futuro, alcune cose sembrano futuristiche (tipo i computer, il robot e il fatto che possiamo vivere su Marte) mentre altre (i veicoli sulla Terra: le auto e dio mio, c’è anche una moto da qualche parte) sembrano appena sbucate fuori da un boomdotto aperto sugli anni ’80?
La parte più divertente del film è quando si fa riferimento al fatto che la loro destinazione finale – una bella casetta sulla spiaggia – sia la più bella di tutta Summerland (una cittadina marittima vicino Santa Barbara, California); solo che in seguito arriveranno poliziotti da Los Angeles.
Mi stavo davvero sbellicando, perché Summerland e Los Angeles sono separati da, tipo, 150 km: è come se, mentre sto scrivendo queste parole, alla mia porta bussassero gli agenti della polizia di Pescara.
Scoppierei a ridere in faccia anche a loro, molto probabilmente.