Recensione – American Gods 1×06 – “A Murder of Gods”

Pubblicato il 8 Giugno 2017 alle 20:00

“Cos’è nato prima? Gli dei o le persone che credono in loro?”

Negli scorsi episodi abbiamo visto quanto sia facile morire per un dio: basta essere dimenticati.

Ma già dal titolo (A Murder of Gods) la sesta puntata della serie tratta dal romanzo fantasy di Neil Gaiman ci fa capire che, forse, c’è un modo più pratico e soprattutto più veloce per sbarazzarsi di una divinità.

Infatti, sia Vulcano che il Gesù Messicano troveranno la morte nei cinquanta minuti (circa) della puntata. Ora la questione interessante è questa: la morte “fisica” per un dio equivale alla sua fine? Oppure il suo spirito continuerà a vivere finché ci sarà qualche mortale a credere in quel dio, dando alla possibilità a quel dio di trovarsi un altro corpo materiale col quale poter camminare sulla Terra? Staremo a vedere nelle prossime puntate, ma sarebbe un grosso errore per gli showrunner lasciarsi sfuggire l’opportunità di approfondire un argomento così interessante.

La cosa più interessante che Bryan Fuller e Michael Green stanno facendo con American Gods è il brandizzare la fede: per rinnovarsi, i vecchi dei devono trovare un nuovo modo di mercificare se stessi e vendersi (spiritualmente, ovvio) alle nuove generazioni. E’ una strada estremamente vincente quella tracciata dai Nuovi Dei, la cui popolarità sta lentamente cancellando gli dei più antichi.

Vulcano (la controparte romana del dio greco Efesto, signore del fuoco e forgiatore delle armi degli dei) grazie alla sua spietatezza ha saputo vendersi alle masse attraverso le armi da fuoco: il fatto che abbia trovato terreno fertile negli Stati Uniti la dice lunga sulla critica sociale che gli autori rivolgono al loro paese, dove la commercializzazione e la circolazione di pistole e fucili è tristemente nota. Davvero da brividi il monologo del dio, un vero e proprio vampiro assetato di sangue che succhia la vita dai bagni di sangue e dalle stragi scaturite dall’uso delle armi.

L’altra grande – e attualissima – critica sociale la vediamo nel prologo: un manipolo di clandestini messicani sta cercando di varcare il confine ed entrare negli Stati Uniti al fianco di Gesù Cristo Messicano. Purtroppo un plotone d’esecuzione tenderà loro un agguato. A differenza della scena con Vulcano – dove è lo stesso dio a spiegarci il suo punto di vista, attraverso il quale gli sceneggiatori esplicitano la loro denuncia sociale – nel prologo il Gesù Messicano non si fa portatore di alcun messaggio: si limita a morire col suo popolo, indifeso davanti ai proiettili, e una volta crivellato dai colpi rovinerà in terra nell’iconica posizione da crocifisso, in una bellissima inquadratura densa di simbolismo.

La sottotrama di Laura, Mad Sweeney e Salim ha i suoi alti e bassi. Per quanto divertenti, alla lunga i duelli verbali volgarissimi fra la donna non-morta e il leprecano sembrano un po’ reiterati e stancanti. Inoltre, l’unico scopo di Laura è quello di trovare il proprio posto nel mondo, ora che è convinta che l’unica persona della quale le importa non la vuole più (ma noi da spettatori sappiamo che Shadow è ancora innamorata di lei, quindi è difficile provare così tanto interesse per il viaggio della ragazza).

La mossa vincente è stata quella di far incrociare il viaggio di Laura e Mad Sweeney con quello di Salim: l’ideologia del tassista-jinn, devoto agli dei, va in contrasto con quella di Laura, che si è riscoperta devota e alla vita e all’amore, e sarà interessante seguire lo sviluppo della vicenda di questo improbabile trio di personaggi.

Certo è che la loro vicenda non potrà mai avere lo stesso peso di quella di Shadow e Mr. Wednesday, ma sembra che gli autori stiano cercando di farle equivalere a livello di minutaggio, bilanciando costantemente lo sviluppo parallelo di entrambe le storyline: così facendo il rischio principale è quello di perdere di vista l’essenza della storia (il rapporto dio/uomo e uomo/dio).

Vedremo se nei due restanti episodi si aggiusterà il tiro.

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