Recensione – House of Cards 5
Pubblicato il 5 Giugno 2017 alle 10:40
La Casa Bianca è pronta ad inaugurare la propria politica del terrore.
Ci sono cose che fanno paura. Paura davvero.
Una di queste – sicuramente fra i primi tre posti – è quella di avere un megalomane vanesio ed egocentrico assetato di potere e fama al comando della più grande nazione che il nostro piccolo, ridicolo mondo abbia mai conosciuto. E no, non stiamo parlando di Donald Trump.
“Non esiste la giustizia” è una delle frasi che più mi hanno colpito – fra le tante, come sempre – di Francis Underwood, presidente degli Stati Uniti nel mondo fittizio, corrotto, oscuro e perverso di House of Cards, mai così tristemente simile al nostro quanto lo sia in questa nuova stagione.
Un’altra, invece, e questa è quella che di sicuro mi ha dato più da riflettere, è: “Tu mi hai votato, America. La colpa di tutto questo è tua.”
Nonostante i numerosissimi parallelismi fra gli Stati Uniti di Frank Underwood e quelli dei nostri telegiornali, è ironico pensare come la produzione di House of Cards 5 sia iniziata molto prima di quell’infame 8 novembre 2016.
Ironico, ma anche inquietante: c’è da chiedersi se i nuovi showrunner della serie (Melissa James Gibson e Frank Pugliese, che lavoravano al thriller politico di Netflix già dalla terza stagione ma che da questa quinta incarnazione sono subentrati al creatore Beau Willimon) non siano in possesso di una sfera magica o non custodiscano per puro caso qualche segreto di Fatima, perché guardare i nuovi tredici capitoli di questa assurda storia dell’orrore praticamente equivale a rileggere con un taglio più cinematografico le ultime pagine dei libri di storia.
Ci sono elezioni dall’esito incerto, macchinazioni, seggi elettorali truccati, tensioni mediorientali, spietati capi di stato russi (non che quelli americani siano da meno), paure e ansie legate alle eventualità terroristiche, bombardamenti con armi chimiche in Siria e fotografie di bambine assassinate dai gas … in pratica, se per qualche incredibile ragione aveste passato gli ultimi mesi su un altro pianeta, vi basterebbe guardare House of Cards 5 per avere un riepilogo di ciò che vi siete persi mentre ve la spassavate con gli alieni.
La serie non è perfetta, sia chiaro. Ormai si è raggiunto un punto in cui praticamente tutti i comprimari conoscono molto bene chi sia Frank Underwood e di cosa sia capace, perciò la narrazione è spesso estremamente schematica.
La grande colpa è quella di non avere il coraggio di schierare nel campo di battaglia (come lo definisce Frank) un avversario degno del protagonista, qualcuno che sia davvero in grado di mettergli i bastoni fra le ruote: in questo modo assistiamo continuamente a macchinazioni per mettere in difficoltà e/o spodestare Frank Underwood dal suo trono di spade, ma alla lunga nessuno riesce a reggere il confronto col vero villain dello show.
Le mie speranze erano riposte in Will Conway (il buonissimo, a tratti ottimo Joel Kinnaman) che però non solo scompare dopo i primi episodi (avrà addirittura un crollo nervoso, ma dovrà ritenersi fortunato: ad alcuni avversari di Underwood è andata molto peggio) ma addirittura, nei momenti in cui deve brillare, rimane un personaggio bidimensionale che non verrà mai sviluppato del tutto. Peccato.
Un altro vero peccato è stato quello di non rivedere il Remy Danton di Mahershala Ali, fresco vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista per Moonlight e straimpegnato con altre produzioni, o la Jackie Sharp di Molly Parker.
Il peccato è amplificato dal fatto che le new-entry non godano, per così dire, di un’introduzione efficace (nel senso che spesso spuntano all’improvviso come funghi) ma che soprattutto, una volta unitesi allo staff presidenziale, inizino ad avere un peso non indifferente sulla trama e sui personaggi in gioco, senza che però ci venga fornita una spiegazione che giustifichi in modo soddisfacente la loro presenza nella storia.
Inoltre, a differenza delle prime stagioni, nelle quali Frank doveva indossare una nuova maschera a seconda della persona che si trovava di fronte, adesso il nostro politico corrotto preferito interpreta lo stesso personaggio in continuazione, anche quando infrange la quarta parete: per Kevin Spacey è un gioco da ragazzi, ma ne consegue una performance molto meno sfaccettata che in passata.
Anche Robin Wright va con l’auto-pilota inserito, ma dalla scorsa stagione la serie si sta sempre più decentralizzando da Frank verso Claire, e la decentralizzazione proseguirà senza sosta fino all’ultima scena dell’ultimo episodio: in più di un’occasione la signora Underwood ha dimostrato di essere un politico migliore – sotto alcuni aspetti, come quelli della collaborazione: Claire è molto meno testarda di Frank, che è testardo all’inverosimile – e vedremo come se la caverà quando lo scettro del potere finirà nelle sue mani.
Si, lo so, ci sono robe che non stanno né in cielo né in terra (che Claire sia la vice-presidente di suo marito è assurdo ai limiti del ridicolo) ma in questa stagione più che mai ho avuto la sensazione che le intenzioni della produzione fossero quelle di mescolare le atmosfere da thriller politico con la satira, o quanto meno qualcosa che ci si avvicinasse, proprio per cavalcare l’onda della politica circense del Donaldone a stelle e strisce.
La narrazione affilata rimane comunque il più grande pregio della serie, e non mancheranno colpi di scena e twist da mascella slogata. A un certo punto il finale vi diventerà chiarissimo, ma ciò non pregiudicherà di una virgola l’esperienza.