Dylan Dog n. 369: Graphic Horror Novel – Recensione

Pubblicato il 31 Maggio 2017 alle 13:52

Inseguito da una misteriosa presenza, il più celebre fumettista inglese si barrica in un bagno pubblico. In preda ad amnesia, cerca di ricostruire gli eventi degli ultimi giorni disegnandoli sulle piastrelle. Ricorda così di aver ingaggiato Dylan Dog per indagare su una catena di omicidi. Le vittime sono i collaboratori dell’artista e le modalità dei delitti si ispirano alle sue graphic novel.

Uno degli obiettivi che Tiziano Sclavi si era preposto nella creazione di Dylan Dog era quello di annullare quella distinzione un po’ snob tra fumetto seriale e fumetto d’autore o, per dirla in altri termini, tra fumetto e graphic novel. Ed è proprio su questo contrasto che s’impernia, sia in chiave diegetica che metatestuale, la seconda prova di Ratigher sulla serie regolare dell’indagatore dell’incubo.

L’autore abruzzese ha firmato graphic novel dal tono grottesco e surreale che rimandano ad un certo fumetto underground americano e la sua prima storia sulle pagine di Dylan Dog, intitolata In fondo al male, ha spiazzato critica e pubblico amplificando i tratti più sfuggenti e contraddittori dell’indagatore dell’incubo fino ad ottenere una versione respingente del personaggio.

Ancor più singolare e provocatorio questo secondo racconto, forse proprio in risposta alle critiche ricevute. I disegni di Paolo Bacilieri, il cui stile alternativo mescola suggestioni che vanno da Pazienza a Moebius rifacendosi alla linea chiara francese, aprono l’albo con una splash-page. Si tratta dell’inquadratura dell’alto di un bagno pubblico. Le piastrelle sono le vignette che di lì a poco il fumettista inizierà a riempire e la predominanza di bianco nell’immagine è metafora di vuoto creativo. Ma lo stesso spazio chiuso del gabinetto è tanto vignetta quanto luogo costrittivo e catartico, l’autore rinchiuso nelle convenzioni del fumetto seriale.

L’artista diventa artigiano. La storia che inizia a disegnare assume i riconoscibili tratti grafici di Montanari e Grassani, i più prolifici disegnatori della serie nonché i più amati dai fan, identificati proprio con quelle storie di maniera che i lettori nostalgici continuano a chiedere mentre la nuova direzione editoriale cerca di proporre un corso narrativo e stilistico più eclettico.

Ratigher si mette addosso i panni dell’onesto mestierante e costruisce una vicenda convenzionale, piatta, trita e ritrita, rinchiusa senza via di scampo nella gabbia bonelliana a sei vignette. Un giallo tradizionale, qualche sequenza splatter “come ai bei vecchi tempi”, i comprimari che si limitano al loro compitino, dialoghi abbottonati, un paio di spiegoni e l’elemento esoterico tirato dentro nel finale.

Ci si aspetta da un momento all’altro la zampata dell’autore ma non arriva. La storia diviene irritante. E Ratigher ne è consapevole. Nel finale lo dice chiaro e forte. Non ci vuole talento per scrivere un racconto di questo tipo. Non vi sveleremo nulla ma è significativa la condizione del fumettista Darren quando inizia a disegnare sulle piastrelle.

Ad un certo punto, Dylan deve recarsi presso una casa editrice ma la sua auto è a secco e l’autore ci mostra l’indagatore dell’incubo che fa il percorso in metropolitana. Una sequenza inutile dettata da un pretesto ancora più inutile, a sottolineare come, a volte, gli sceneggiatori allunghino il brodo delle sceneggiature con stucchevoli scene riempitive.

E’ forte e chiara la condanna dello snobismo nei riguardi del fumetto seriale. L’atteggiamento di Darren in tal senso subisce la legge del contrappasso. Ma la storia riesce, in maniera più o meno volontaria, più o meno implicita, ad essere provocatoria sia nei confronti di quei lettori rassicurati dalla consueta minestrina riscaldata sia nei riguardi di quegli autori che continuano a cucinarla.

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