Cannes 2017 – Recensione: “Wind River”
Pubblicato il 26 Maggio 2017 alle 15:00
Dopo aver realizzato le sceneggiature di Sicario e Hell or High Water, Taylor Sheridan scrive e dirige Wind River, terzo capitolo di una ideale trilogia new-western.
Non sarà raffinato e ipnotico come Sicario di Denis Villeneuve, non sarà sporco e magnetico come Hell or High Water di David Mackenzie, ma è sicuramente solido e convincente l’esordio alla regia di Taylor Sheridan.
Questo ex attore statunitense (l’avete visto in Sons of Anarchy, era il giovane sceriffo delle prime stagioni), dopo aver firmato le sceneggiature di ben due film capolavoro fra i più acclamati degli ultimi anni, decide di strafare con Wind River, ultimo capitolo del suo personalissimo trittico new-western.
L’esperto cacciatore e pescatore Cory Lambert (Jeremy Renner) scopre il corpo senza vita di una giovane ragazza in una riserva indiana. Ad indagare viene inviata l’agente dell’F.B.I. Jane Banner (Elizabeth Olsen), inesperta ed impreparata ad affrontare il duro inverno in Wyoming. Man mano che l’indagine prosegue, Lambert e Banner si inoltrano in un mondo crudo e violento, mettendo a rischio le proprie vite, e nel tentativo di far luce sul triste destino della defunta, andranno incontro ad una terribile verità.
Si presenta così Wind River, semplice e meno ambizioso delle due sceneggiature precedenti, ma di certo molto più drammatico, al punto da farvi commuovere in più di un’occasione (per lo meno per me è stato così).
Sheridan ci mostra il ritratto di un’altra America, una che non è fatta di strisce rosse e blu ma è fatta di macchie bianche (vedremo solo panorami innevati) e nere (ci troveremo ad osservare i più profondi abissi dell’animo umano).
E’ un western dall’ambientazione innevata (come Il Grande Silenzio di Corbucci o La Belva di Wellman) ed è interessante notare come Sheridan sfrutti l’ambientazione delle sue storie come metafora per il loro contesto: se la droga e la sete di denaro (Sicario ed Hell or High Water) venivano riassunte dall’afa, dal sole cocente e dal sudore, allora viene da se che i venti ghiacciati e i boschi sepolti dalla neve che fanno da sfondo a Wind River rappresentano la perdita e il lutto che gravano sui personaggi del film.
La fotografia di Ben Richardson imprigiona tanto i panorami quanto i sentimenti, e la storia di Sheridan si concentra sulle comunità dimenticate, su quegli strati della società che vengono sepolti sotto la neve come segreti o peccati di cui ci si vuole disfare per sempre.
Ma come si dice, niente dura per sempre. A parte il dolore. Al quale però, come dirà Cory in una delle scene più toccanti del film, “dopo un po’ diventa più facile abituarcisi”.
Quello a cui dobbiamo fare l’abitudine noi, invece, è il talento di Taylor Sheridan. Che germoglia nei deserti, di sabbia o di neve che siano, e fiorisce inarrestabile. E ne vogliamo sempre di più.