Recensione – Song to Song, di Terrence Malick

Pubblicato il 15 Maggio 2017 alle 15:00

Arriva in Italia il nuovo film di Terrence Malick, leggendario regista statunitense che dopo una carriera quarantennale aveva iniziato a mostrare primi segni di cedimento già col suo precedente lavoro, Knight of Cup. Con Song to Song le cose non sembrano essere migliorate.

Mentre guardavo Song to Song mi è venuto in mente XXX, di Rob Cohen. E questo già la dice lunga.

A rievocare quello spy-movie supercoatto è stato un dettaglio che mi ha riempito gli occhi durante la prima apparizione del personaggio di Natalie Portman, una barista di cui il personaggio di Michael Fassbender si innamora a circa metà di Song to Song: siccome tutto deve essere bello per Malick, questa biondona con grembiule da cucina e minigonna va a lavorare sopra scarpe di pelle nerissima, tacchi a spillo vertiginosi e sorrisi smaglianti.

E mentre la osservavo pensando a quanto fosse ridicola l’intera situazione – Fassbender la conquista con un solo sguardo, lì per lì, ed è così che inizia ogni relazione in questo film: istantaneamente – la mia mente ha ricollegato quei tacchi a spilli a Xander Cage, quando nella tavola calda scopriva il trucco dell’agente segreto Samuel L. Jackson notando la cameriera sui tacchi a spillo e diceva: “No, aspettate, questa dev’essere una messa in scena della CIA o roba simile perché le vere cameriere non vanno a lavoro con scarpe come quelle”.

Ma c’è qualcosa di vero in Song to Song? La risposta è no.

Ci sono Ryan Gosling (che il cugino stupido di Sebastian di La La Land: anche qui è un musicista, anche qui scivola sul pavimento come faceva nel caffè dove lavorava Mia), Michael Fassbender (è l’Uomo in Nero di Stephen King? Il Diavolo della Bibbia? boh), Rooney Mara, Cate Blanchett, Natalie Portman e Val Kilmer (dopo essere stato Jim Morrison per Oliver Stone e Nick Rivers in Top Secret!, torna a salire sul palco, un po’ sovrappeso, per lanciare uranio al pubblico – dico davvero, lancia l’uranio) ma nessuno di loro interpreta una parte.

Sono pupazzi idioti meditabondi che ridono o piangono o si guardano l’un l’altro o si accarezzano dolcemente o camminano oppure osservano l’orizzonte.

C’è la fotografia di Lubezki, ma le immagini non possono sostituire una storia inesistente. E visto che Malick di raccontare una storia sembra non avere la minima voglia, ripudia ogni scena che possa portare a qualsiasi tipo di coerenza narrativa.

C’è un soggetto, ma non una sceneggiatura, e l’eterno flusso di coscienza (129 minuti che sembrano due settimane, ma che rappresentano comunque un netto miglioramento rispetto al first cut, che si dice si aggirasse intorno alle 8 ore) è composto da frammenti di improvvisazione rincollati in sala di montaggio con pretenziosi voice-over registrati in un secondo momento.

E’ tutto un sogno, okay. Non c’è niente di reale. Questi tipi non sono persone vere, ma statue di rara (anzi unica) bellezza, che fanno sesso da vestiti e sono dotate del dono della parola.

Solo che il film è migliore quando a parlare è solo la colonna sonora, perché quando a farlo sono i personaggi ci tocca ascoltare roba tipo “Amo la tua anima” o “Ti spaventa con i nomi”.

Mi piace l’art-house, e mi piace Malick. The Tree of Life La Sottile Linea Rossa sono due dei film più belli della storia del cinema, e forse ancora più bello di questi due è I Giorni del Cielo (citato due volte in Song to Song). Quindi il dispiacere nell’assistere a questa parte della sua carriera, che a tutti gli effetti sembra una parabola discendente, è ancora maggiore.

Prima passavano anni – decenni anche – tra un film e l’altro, mentre ultimamente a separare le sue opere c’è giusto qualche mese; anzi neanche, visto che questo film è stato girato in contemporanea a Knight of Cup (tra l’altro Christian Bale doveva comparire anche in Song to Song, ma la sua parte è stata tagliata), e Voyage of Time è nato da scene scartate di The Tree of Life (una commercialata spregevole, altro che cinema d’arte).

Da To The Wonder in poi è come se Terrence Malick avesse iniziato a fare film per la fan-base di Terrence Malick, e non perché avesse effettivamente qualcosa da dire.

Ed entrambi i film sono vuoti, pieni di niente, con personaggi non tanto inconsistenti quanto effimeri.

La furbizia – se vogliamo chiamarla furbizia invece che speculazione – è lo star-system, operazione commerciale vecchia come il cinema stesso su cui Malick continua a costruire la sua fortuna (diciamolo pure: nessuno andrebbe a vedere ‘sta roba se non ci fossero tutti quei nomi di divi stampati sulla locandina).

In definitiva, Song to Song è stanchissimo, trascinato, superficiale, senza nulla da dire, un film in cui la calda Austin sembra l’Alaska a gennaio e le scene di sesso vantano una carica erotica di un sasso nell’erba. “Ogni esperienza è meglio di nessuna esperienza” dice il personaggio di Rooney Mara. A parte in questo caso, però.

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