Recensione – Netflix – Small Crimes, di Evan Katz
Pubblicato il 3 Maggio 2017 alle 10:00
Il nuovo film Netflix è un crime-drama sull’impossibilità di lasciarsi il proprio passato alle spalle, tratto dall’omonimo romanzo Dave Zeltserman.
E’ molto affascinante il mondo corrotto e grigissimo di Small Crimes, film diretto da Evan Katz (Cheap Thrills) con protagonista Nikolaj Coster-Waldau (Jaime Lannister de Il Trono di Spade). Popolato da personaggi corrotti e moralmente irrecuperabili, animato da colpi di scena e situazioni buie e piovose nelle quali il male può strisciare liberamente fra le ombre.
Eppure, per tutta la sua durata, il film non riesce mai a scrollarsi di dosso la pesantezza dell’aura di banalità che circonda tutti questi elementi, che grava su di loro infiacchendoli impietosamente.
Joe Danton, ex poliziotto che ha passato gli ultimi sei anni della sua vita in prigione per tentato omicidio, torna finalmente in libertà: ben presto però, a causa della pressione di dover dimostrare ai suoi genitori di essere cambiato, dell’odio della comunità e dei ricatti di un suo ex collega, capirà che essere uscito di prigione non vuol dire necessariamente essere liberi, soprattutto quando è il tuo passato a volerti intrappolare.
La trama sarebbe anche interessante, ma il difetto principale della sceneggiatura è quello di riferirsi costantemente a fatti e/o persone antecedenti agli avvenimenti del film, fatti e/o persone che rimangono sospesi come frasi incompiute, causando spesso confusione senza mai riuscire a spiegare chiaramente il contesto: si parla tantissime volte del crimine che Joe avrebbe compiuto sei anni prima, ma non si capisce mai una volta per tutte chi ha fatto cosa a chi, o quando o dove o perché.
Sulla questione tutti si contraddicono a vicenda e allo spettatore non verrà mai data una versione chiara e definitiva, e questo lasciare continuamente in sospeso non permette di provare empatia per questi personaggi, sì ben scritti e accattivanti ma incapaci di suscitare in noi ammirazione, antipatia, odio o qualsiasi altro tipo di sentimento.
Coster-Waldau è bravissimo nei panni di questo ex sbirro pieno di contraddizioni, rimasto sobrio per tutta la sua permanenza in prigione ma che si fionda nel bar più vicino la prima notte fuori, che prova a distaccarsi dal mondo di violenza che lo ha portato alla rovina ma non ci prova mai abbastanza, finendo col rimanerci impantanato sempre di più.
E’ bello vederlo alle prese coi genitori, poveri diavoli che hanno completamente perso la speranza col proprio figlio: sotto quest’ottica è favoloso il lavoro di Forster (nei panni del padre di Joe), i cui silenzi di delusione valgono molto più delle petulanti lamentele di Jacki Weaver (la madre di Joe), mamma arrabbiata e rancorosa.
Altra pecca della sceneggiatura è quella di far accadere tutto troppo velocemente (come il rapporto sentimentale fra Joe e Charlotte, interpretata dalla Molly Parker vista in House of Cards) e tutto troppo banalmente: ne consegue che la ricaduta morale del protagonista, risucchiato dalla vita criminale cui tenta (neanche troppo) di rinunciare, è poco appagante, poco avvincente.
La frase migliore del film viene pronunciata quasi banalmente dall’ex partner corrotto di Joe, interpretato da Gary Cole: “Mi manca il liceo”, dice lo sbirro-criminale, mentre in piena notte sorseggia una birra insieme a Joe davanti al campo da football del liceo cittadino. Poche semplici parole che riassumono la psicologia di tutti i protagonisti di questa strana vicenda noir, tutti intrappolati in un presente triste e violento, tutti che guardano con terribile nostalgia al proprio passato, sempre più lontano nello specchietto retrovisore.
Il finale da tragedia greca è stupendo, e racconta il personaggio molto più di quanto faccia l’intero film.