Ghost in the shell – Recensione

Pubblicato il 1 Aprile 2017 alle 22:54

Futuro prossimo. La maggior parte degli esseri umani è dotata di impianti cibernetici che ne potenziano le doti fisiche. Il Maggiore Mira Killian è un cyborg fornito di un cervello umano anziché di un’intelligenza artificiale, singolare risultato di un esperimento della Hanka Robotics. Mira guida la task force della Sezione 9, un’agenzia che combatte il cyberterrorismo, e dà la caccia al misterioso Kuze, un hacker che prende di mira tutti coloro che sono coinvolti nel Progetto 2501.

Mentre guardavamo Ghost in the Shell e Blade Runner, due opere fondamentali del genere cyberpunk tra gli anni ’80 e ’90, immaginavamo il futuro e ci chiedevamo se il ventunesimo secolo sarebbe stato come quello distopico dipinto da molta della narrativa di fantascienza. Ora che siamo giunti al 2017, Hollywood ci fa guardare indietro sull’onda di quel fenomeno nostalgia che porta a riproporre franchise di successo in assenza di nuove idee.

Proprio quest’anno, quei due capolavori di fantascienza tornano sul grande schermo. In attesa del sequel di Blade Runner, in arrivo il prossimo autunno, il manga di Masamune Shirow, già trasposto nel sontuoso film d’animazione di Mamoru Oshii, diventa un live-action di matrice statunitense. Le tematiche filosofiche e metafisiche dell’opera originale si perdono però in una confezione atta a conformarsi alle convenzioni più dozzinali del cinema d’intrattenimento per un pubblico generalista.

Come se non bastasse la decisione sciagurata di affidare una così delicata traslazione filmica al poco esperto Rupert Sanders, che ha nel curriculum solo il pessimo Biancaneve e il Cacciatore, il film ha dovuto affrontare la spinosa controversia sul whitewashing per la scelta di affidare a Scarlett Johansson il ruolo della protagonista, Motoko Kusanagi, qui ribattezzata Mira Killian. Saremmo disposti a passare sopra al discorso etnico, in fin dei conti siamo di fronte ad un cyborg dall’aspetto sintetico, se non fosse che il whitewashing diviene un’imbarazzante e fastidiosa dinamica narrativa nella back-story della protagonista. Potremmo definirlo un meta-whitewashing.

E non è l’unico problema. Se la Johansson è una delle attrici più pagate di Hollywood, è ovvio che garantisca ritorni importanti al botteghino. Ecco perché le vengono cuciti addosso i panni, talvolta troppo larghi, di eroine action per le quali è fisicamente inappropriata, come in questo caso.

I ragazzi della neozelandese Weta hanno fatto un lavoro enorme per non far rimpiangere il fascino del disegno animato. New Port City, la Tokyo del futuro, perde la decadenza e la tangibilità della versione originale divenendo una cacofonia kitsch di ologrammi pubblicitari in realtà aumentata che sembra voler rifare il verso più al sopracitato film di Ridley Scott che all’apparato visivo del manga-anime.

La sceneggiatura parte dalla traccia del film del ’95 ed innesta qualche elemento da altri episodi della serie tentando invano di rendere la vicenda imprevedibile anche per gli appassionati. Si tratta dell’ennesima storia delle origini dell’eroina di turno con un arco narrativo che rimanda più a RoboCop, tra la cyborg-poliziotta in cerca del suo passato e la corporazione militarizzata, con uno stucchevole epilogo riconciliante e salvifico.

Lo sviluppo si perde quindi tra dialoghi esplicativi, tematiche eccessivamente semplificate e brevi sequenze action coreografate con scarsa inventiva che calano definitivamente le braghe nello scontro finale con il tank, nettamente inferiore nella resa alla memorabile controparte animata. Il conflitto tra macchina e coscienza si perde in uno shell senza ghost, un affascinante guscio di effetti visivi ed estetica privo di un autentico motore emotivo.

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