Recensione in Anteprima – Autopsy
Pubblicato il 8 Marzo 2017 alle 15:10
Il primo film in lingua inglese del regista norvegese André Øvredal è un riuscitissimo esercizio di messa in scena della suspance, che purtroppo va un po’ a perdersi nel finale.
In un obitorio a gestione familiare viene portato il cadavere di una ragazza che presenta brutali ferite interne. Eppure, esteriormente, il corpo è in perfette condizioni. Cosa è stato fatto a Jane Doe? E soprattutto, chi è? E com’è collegata agli strani ed inquietanti fenomeni paranormali che si stanno verificando nell’obitorio?
Il concept è perfetto per una storia di fantasmi da raccontare durante una bella serata fra amici, magari intorno a un fuoco da campo, e le credibili interpretazioni di Brian Cox ed Emile Hirsch riescono anche a renderlo efficace per il grande schermo.
L’horror sta diventando sempre più il modo migliore che i registi indipendenti hanno per farsi notare, e soprattutto per raccontare le proprie storie: lo abbiamo visto in It Follows, The Witch, Man in the Dark, Sono la Bella Creatura che Vive in Questa Casa.
In questo senso Øvredal. (autore di Troll Hunter) si aggrega al gruppo di semi-emergenti con Autopsy, un thriller soprannaturale che ha l’apprezzabile pregio di voler restare piccolo, intimo ed introspettivo, senza pretendere chissà cosa.
Crudo senza mai sfociare nel gore, Autopsy riesce nel non banale compito di raggiungere vette di alto terrore senza ricorrere all’ausilio di esorbitanti effetti speciali. Colori oscuri e densi ammorbano i claustrofobici corridoi dell’obitorio, con l’immobilità osservazionale della camera che va ad intrappolare i due protagonisti in atmosfere molto derivative dell’Alien del grande Ridley Scott.
Ad aspettarvi dopo circa settanta minuti pressoché perfetti, un improbabile ed indegno finale che però non mina la credibilità della sceneggiatura scritta da Ian Goldberg e Richard Naing. Un difetto ricorrente negli horror, che spesso tendono ad essere sostanziosi nello sviluppo dell’intreccio piuttosto che nel climax, ma qui l’intreccio è talmente ben congegnato che i pessimi dieci minuti finali sono facili da perdonare.
Un altro caso che avvalora la celebre tesi sull’importanza del viaggio, e non della destinazione.