Logan – Recensione Spoiler

Pubblicato il 6 Marzo 2017 alle 15:10

“Logan, tu hai ancora tempo…”

Una frase spietata, incompatibile con la realtà dei fatti, idiosincratica quasi. Perché Hugh Jackman ha prestato il suo volto e il suo corpo al mutante canadese per 17 lunghi anni, e non se c’è una cosa che non gli è rimasta è proprio il tempo.

Arriva un punto in cui bisogna andare altri, e lasciare l’eredità a qualcun altro. Patrick Stewart l’ha fatto in maniera graduale col suo professor X, in una sorta di staffetta con James McAvoy. E ora è tempo (ancora questa parola) che sia Hugh Jackman a passare il testimone al corridore davanti a lui, più scattante, più giovane.

Ma prima c’è un’ultima corsa da fare. Un ultimo viaggio. Verso il Nord Dakota. Verso il futuro.

La storia ci ha insegnato che i migliori cinecomics sono stati quelli che cinecomics non erano affatto: The Dark Knight di Nolan, un thriller d’azione tra caper movie, gangster e terrorismo; Deadpool di Tim Miller, che puntava tutto su un’irriverenza parossista e il revisionismo; Guardiani della Galassia di James Gunn, una space opera con tantissimi elementi comedy; Birdman di Iñárritu, una commedia intellettuale alla Woody Allen impregnata di surrealismo.

In questo senso, Logan trova la sua ispirazione nel cuore del mito hollywoodiano, il western, miscelato da Mangold col road movie, il racconto di formazione e un pizzico di post-apocalittico.

Di supereroi? Neanche l’ombra. Se cercate effetti speciali, costumi sgargianti e scontri per la salvezza dell’umanità, andate da un’altra parte: qui c’è violenza, sangue, dolore e lacrime, e ogni cosa è meravigliosa.

Dopo un primo capitolo mediocre e un sequel migliore ma ancora zoppicante, Hugh Jackman e James Mangold trovano la perfezione cinematografica in un ultimo capitolo che si muove a metà fra Mad Max: Oltre la Sfera del Tuono e Il Cavaliere della Valle Solitaria (storico western del ’53 diretto da George Stevens e citato più volte nel film, in maniera toccante soprattutto nell’ultima scena). Si parla di rancori e vite spezzate e futuri più verdi impossibili da realizzare. Ci sono la polvere, il deserto, il sole cocente, la frontiera, tantissime idee visive – una migliore dell’altra, come la croce ribaltata per segnare una X – e strizzatine d’occhio all’attuale situazione sociopolitica (il muro trumpiano al confine col Messico qui è una triste realtà): è un film con un’anima, Logan, un’anima palpabile, pesante, che puzza di sudore e alcool e dell’odore ferroso del sangue, e che è percepibile fin dal primo minuto.

Un’anima onorevole, spietata, commovente ed eroica, bagnata da una fotografia dorata che splende in contraddizione col mondo oscuro che va ad illuminare. La violenza estetica è perfettamente in linea con la storia adulta che Mangold vuole raccontare, e francamente dopo i primi due film si sentiva il bisogno di andare oltre, di fare qualcosa di diverso. 

Non è un caso che Jackman qui è al suo massimo, migliore addirittura del lavoro svolto in Giorni di un Futuro Passato. L’umanità del suo Wolverine viene fuori nel suo momento più nero, più tragico, e il sacrificio finale per salvare X-23 e i suoi giovani amici è la chiusa perfetta per una cavalcata quasi ventennale.

Mangold sa che c’è un solo finale possibile per questa cavalcata, e la morte di Logan – nonostante sia un po’ troppo prevedibile – riesce comunque a risultare molto commovente e profonda. Il valore simbolico di lascito viene ribadito dalle parole di Laura (una magistrale, sorprendente Dafne Keen, qui all’esordio assoluto), che cita il monologo finale del cowboy Shane di Alan Ladd, imparato a memoria dalla piccola nella stanza d’albergo: davvero azzeccata la trovata di sceneggiatura, che se da una parte rimarca il feeling so wester dell’opera, dall’altra caratterizza ancora di più il personaggio della piccola wolverina, che ha potuto scoprire il mondo solo attraverso fumetti e televisione e che per la prima volta si trova a provare sentimenti per qualcuno.

C’è qualche difetto, sia chiaro: il cattivo principale praticamente è assente, e Charles Xavier è più una spalla comica del protagonista che un co-protagonista davvero funzionale alla trama (lo dimostra il modo sbrigativo in cui viene eliminato); tra l’altro, a differenza del fumetto Old Man Logan di Mark Millar dal quale gran parte della storia è tratta, qui viene fatto intendere che è il professor X il responsabile della morte degli X-Men, sgravando questo terribile peso dalle spalle di Logan (scelta un po’ discutibile: il senso di colpa nella serie a fumetti era il motore principale della storia, e funzionava alla grande nel momento del riscatto).

Restano comunque le ottime interpretazioni di tutto il cast (con Jackman e la piccola Keen in primis: chissà che qualcuno dei due non attiri l’attenzione di qualche importante premio) e una storia di supereroi che non parla di supereroi, ma di persone spezzate che trovano la forza di compiere un’ultima, grande impresa. Per gli altri, come sempre, e mai per se stessi.

Il tempo per continuare potrà anche essere finito, ma per i classici il tempo non finisce mai: e fra cinquant’anni, quando si guarderà indietro all’era del supereroe cinematografico, Logan sarà ciò che Il Cavaliere della Valle Solitaria ha significato per Mangold, per Jackman, e per la ragazzina silenziosa e arrabbiata che conobbe l’era dell’eroe western in un motel di Oklahoma City.

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