T2 Trainspotting – Recensione

Pubblicato il 25 Febbraio 2017 alle 23:54

Mark Renton torna ad Edimburgo e ritrova i vecchi compagni che ha tradito. Spud è ancora preda della tossicodipendenza ed è sull’orlo del suicidio. Sick Boy gestisce un pub, coltiva marijuana e organizza dei ricatti a sfondo sessuale con la sua compagna Veronika. Begbie è evaso dal carcere e vuole spingere il figlio a seguire le sue orme e diventare un criminale.

La nostalgia è una droga che causa dipendenza ed è uno dei mali che sta affliggendo il mondo dell’intrattenimento, mezzuccio facile per toccare le corde emotive del pubblico. In tal senso, il sequel di Trainspotting è venato da una certa ambiguità. Blandisce i fan indulgendo nei ricordi del primo episodio ma ha anche l’onestà intellettuale di mettere il pubblico di fronte allo specchio schiantandogli la fronte contro il vetro.

D’altronde, per i quattro protagonisti, ricordare con malinconia la loro scalcinata adolescenza tra le strade di Edimburgo equivale al più becero dei “si stava meglio quando si stava peggio”. Sono trascorsi vent’anni da quando Danny Boyle salì alla ribalta proponendoci quell’acido spaccato di degrado giovanile anni ’90, tratto dal romanzo di Irvine Welsh. Con la benedizione dello scrittore scozzese, il sequel cinematografico diverge da quello letterario, intitolato Porno, poiché sono altre le intenzioni di Boyle e dello sceneggiatore John Hodge, già al suo fianco nel primo episodio.

Il protagonista Mark Renton (Ewan McGregor) ha scelto “la vita” nel senso più conformista della parola, è l’unico del gruppo ad essersi allontanato dalla Scozia e ad essersi imborghesito nella Amsterdam odierna. Ritrovarsi con gli ex-compagni, rancorosi per il tradimento subito, dà il via ad una serie di dinamiche goliardiche e politicamente scorrette. Ma se, vent’anni fa, i protagonisti, nella loro deriva, riuscivano ad essere accattivanti, qui appaiono volutamente ridicoli, non più figure tragiche ma patetiche.

Il film è quindi per buona parte una commedia surreale, quasi demenziale, che abbandona l’estetica lisergica e decadente del prototipo per muoversi in un presente di luci artificiali e nella patina di giornate assolate. La colonna sonora che era stata uno dei punti di forza dell’originale, ripropone alcuni di quei brani aggiungendone di più attuali a sintetizzare lo spirito del film.

La stessa struttura cede alle convenzioni, procede più con la testa che con la pancia e bada fin troppo all’intreccio delle relazioni, ora più complicate, tra i quattro protagonisti. Gli stessi Boyle e Hodge dimostrano di essere invecchiati, di essersi inteneriti, e gli succede la cosa peggiore che può accadere a dei narratori. S’innamorano dei propri personaggi, non hanno la forza per dargli un finale amaro e cinico e preferiscono un epilogo non assolutorio ma, in una certa misura, salvifico.

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