Recensione – Barriere. Candidato a quattro premi Oscar

Pubblicato il 25 Febbraio 2017 alle 15:00

I sobborghi popolari della Pittsburgh anni ’50 vengono raccontati attraverso gli occhi di un’ex promessa nera del baseball che oggi, a 53 anni, vive in una casa modesta insieme alla sua famiglia ed è arrabbiato col mondo intero.

Dopo che Samuel Beckett ci ha raccontato di Vladimiro ed Estragone che aspettavano Godot, Arthur Wilson nel 1983 narrò la vicenda di Troy Maxson, un uomo duro e assediato (il nome ricorda la Guerra di Troia) che aspetta nientemeno che la Signora Morte, pronto a regolare i conti.

Ad interpretarlo un titanico Denzel Washington, anche regista del progetto cinematografico tratto dall’opera teatrale vincitrice del Premio Pulitzer per la drammaturgia.

L’attore, due volte premio Oscar, aveva già portato a teatro la storia di Troy e della sua famiglia, sempre accompagnato dalla collega Viola Davis, e la loro performance sul palco era valsa ad entrambi un Tony Award come Migliore Attore e Migliore Attrice.

Tutto questo preambolo perché è impossibile parlare di Fences di Denzel Washington senza tener conto dell’opera originale di Wilson: guardare questo film è come andare a teatro, per volere dello stesso Washington, che plasma la propria regia in un contemplativo trampolino di lancio ad uso e consumo degli attori, che non devono far altro che brillare; la sceneggiatura, poi, è quella stessa pièce teatrale scritta dal drammaturgo statunitense, accreditato come sceneggiatore nonostante il decesso avvenuto nel 2005 (potrebbe aggiudicarsi l’Oscar) e i piccoli ritocchi apportati da Tony Kushner.

Se Moonlight ci racconta la contemporaneità dell’America Nera, Barriere ci ricorda cosa c’era prima di quella contemporaneità e lo fa dal cortile dei Maxson, il palcoscenico su cui per la maggior parte del tempo si muoveranno Troy e la sua famiglia.

Si tratta di un gioco di realismo poetico molto accentuato, con un fiume in piena di parole (altro che The Hateful Eight) nel quale ondeggiano toni divertenti, composti da battute sagaci e chiassose chiacchierate tra amici ubriachi, smussati però da monologhi profondamente significativi e scontri verbali (e non) estremamente drammatici.

Troy è un uomo amaramente deluso dalla vita e sempre pronto a scontrarsi con tutti, è un uomo costantemente in guerra che chiama sua moglie donna e i suoi figli negro, che con fare romantico versa il primo goccio della bottiglia di gin a terra, che conosce un mucchio di storie assurde e che parla di doveri e onore e responsabilità.

Ma che forse di quando in quando racconta anche un sacco di balle, e agli altri e a se stesso, un po’ come capita di fare a qualsiasi persona comune.

La metafora dello steccato rappresenta i confini che questo soffocante padre di famiglia erige fra se e le persone più vicine a lui, ma è anche, forse, la parafrasi del desiderio di una madre di tenere insieme e uniti ciò che ha di più caro al mondo. 

Se è certo che domani il sole sorgerà, allora è certo anche che Viola Davis verrà insignita col premio Oscar per la Miglior Attrice Non-Protagonista (l’hanno spostata di proposito in questa categoria per non farla scontrare con Emma Stone e lasciare campo libero a entrambe), grazie alla sua interpretazione della moglie di Troy, Rose, innamorata del suo uomo al punto da annullare completamente se stessa.

Ottimo anche Jovan Adepo (Michael di The Leftovers 2) nello scomodo ruolo del figlio di Troy, schiacciato dalla gigantesca ombra proiettata da suo padre.

Se l’anno scorso abbiamo visto la dolcezza madre/figlio con Room, quest’anno Washington ci racconta una dura ed aspra storia sulla conflittuale relazione padre/figlio. E mentre Zhang Yimou col suo The Great Wall ci racconta che le barriere servono per tenere fuori le minacce, questo film ci ricorda che a volte le minacce sono già al di qua del muro e che non possiamo fare niente per liberarci di esse.

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