Logan – The Wolverine – Recensione in anteprima

Pubblicato il 20 Febbraio 2017 alle 22:31

Futuro prossimo. Logan è invecchiato e il suo fattore di guarigione si è indebolito. Il mutante noto come Wolverine si nasconde al confine con il Messico dove si prende cura di Charles Xavier, anziano e malato. Logan dovrà uscire allo scoperto per aiutare Laura, una bambina mutante dotata dei suoi stessi poteri e braccata dal malvagio Donald Pierce, capo della sicurezza del progetto Transigen.

Diciassette anni fa, quand’ebbe inizio la saga cinematografica degli X-Men, molti ritennero Hugh Jackman inadatto per interpretare Wolverine. Troppo bello, troppo alto, troppo metrosexual, troppo australiano per dare corpo ad un canadese tarchiato, rozzo, irsuto e feroce come il mustelide da cui prende il nome. Eppure, l’interpretazione di Jackman riuscì ad accattivarsi sia gli esigenti appassionati del fumetto che un pubblico più generalista, maschile e femminile, ed il supereroe-antieroe Marvel è rimasto legato all’attore fino ad oggi, per un totale di nove film.

Il primo spin-off dedicato a Wolverine, uscito nel 2009 e diretto da Gavin Hood, si dimostrò deludente per l’incapacità di allontanarsi dal rassicurante grembo materno del franchise principale con troppi X-Men inseriti a forza nel film. Il secondo venne affidato a James Mangold, che si era fatto apprezzare in special modo con il noir Cop Land e il western Quel treno per Yuma (con Russell Crowe, che era stato in lizza per interpretare Wolverine prima di Hugh Jackman) e non era abituato a scene d’azione da blockbuster con grandi effetti visivi. L’inesperienza venne fuori nel mediocre Wolverine – L’immortale e la sensazione fu che il regista non aveva realizzato il film che avrebbe voluto.

Deadpool, uscito lo scorso anno, sembra però aver cambiato le cose in ambito 20th Century Fox. Si trattava sì di uno spin-off degli X-Men ma sui generis, una demenziale parodia separata dalla continuity e vietata ai minori. Il successo al botteghino pare aver convinto la Fox a concedere maggior libertà autoriale a Mangold che stavolta è potuto tornare su sentieri a lui più consoni con un ruvido western moderno ed intimista, ricco di iperviolenza da fumetto in stile Paul Verhoeven, privo di forzose strizzate d’occhio o mezzucci facili per accattivarsi i fan.

La storia trae spunto dalla storyline a fumetti Old Man Logan ed il film sta alla saga cinematografica come Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller sta a quella fumettistica di Batman. Si tratta di un’ipotesi di finale la cui effettiva canonizzazione è da prendere con le dovute cautele.

E’ il percorso archetipico del guerriero-pistolero-samurai, fate un po’ voi, sul viale del tramonto, verso la sua ultima battaglia. Logan è nato verso la metà dell’800, quindi, nonostante un corpo da Highlander, la sua condizione emotiva era già quella di un uomo consumato dall’età, ora decadente anche nel fisico. Jackman ha potuto finalmente tratteggiare il Wolverine più fedele all’originale, coperto di cicatrici interiori ed esteriori, politicamente scorretto, brutale, cinico e respingente. Se il Wolverine che abbiamo conosciuto diciassette anni fa nel primo X-Men fosse stato questo, difficilmente avremmo provato per lui la stessa empatia.

Lo accompagna in questo viaggio una sorta di surrogato famigliare. Patrick Stewart sfaccetta uno Xavier versione figura paterna, pure sofferente ed invecchiato. Nel suo caso, la malattia è anche un pretesto per limitarne i poteri nel contesto realistico del film. Dafne Keen è sorprendente nel ruolo filiale di Laura Kinney, alias X-23. Solo dodici anni e mastodontica nella mimica corporea e facciale con la quale sopperisce al mutismo del personaggio, sobbarcandosi anche alcune delle scene più cruente del film. E poi c’è Caliban, una sorta di zio Nosferatu buono.

La trama si articola come un road movie che prende il via dal confine con il Messico. In tal senso il tema dell’emarginazione e della diversità dei mutanti viene declinato in modo diverso dal solito divenendo una metafora sociopolitica sull’immigrazione in America dolorosamente attuale.

L’elemento più interessante è la componente metanarrativa dell’opera. Nell’universo creato da Mangold, esistono i fumetti degli X-Men ad indicare la traslazione del protagonista nel mondo reale, quasi consapevole della propria condizione diegetica, personaggio in una storia di fiction. Non a caso, il film s’intitola Logan sottolineando la volontà di Wolverine di staccarsi dalla sua dimensione mitica e di vivere una vita normale. Dovrà quindi confrontarsi, in senso stretto, con la sua giovinezza, incarnazione di un passato che fatica a lasciarsi alle spalle. E non vi sveliamo altro.

A colpi di artigliate, Wolverine si fa largo tra frattaglie e teste mozzate col sangue che schizza sulla macchina da presa, dritto in faccia al pubblico, fino alla resa dei conti conclusiva ancora di sapore western con tanto di pistolettate risolutive. Non vi riveleremo l’epilogo ma la sequenza conclusiva è certamente quella più emozionante ed iconica suggellando il compiersi del lungo arco narrativo di un eroe che, dopo diciassette anni, trova finalmente l’ideale punto d’incontro con la sua controparte fumettistica.

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