Recensione – Billy Lynn, il nuovo film del tre volte premio Oscar Ang Lee
Pubblicato il 5 Febbraio 2017 alle 14:40
Quando l’atto di eroismo compiuto in Iraq da Billy Lynn, un soldato diciannovenne del Texas, viene ripreso da una telecamera, il giovane viene insignito della medaglia al valore ed eletto eroe nazionale. Tornato in patria come una celebrità insieme al suo team Bravo, dovrà affrontare un tour promozionale per tutto il paese che culminerà a Dallas, nel giorno del Ringraziamento, quando i giovani soldati prenderanno parte allo spettacolo dell’intervallo del Super Bowl. Ma per Billy dimenticare il deserto iracheno e la violenza della guerra non è così semplice.
C’è sempre una sorta di febbricitante e smaniosa attesa, in noi terribili cinefili, quando si avvicina la data di uscita del nuovo film di un regista tre volte premio Oscar.
Perché il talento di Ang Lee, regista taiwanese classe 1954, è stato riconosciuto da tutto il mondo, e perfino dall’Academy, che l’ha premiato nel 2000 con la statuetta per il Miglior Film Straniero (La Tigre e il Dragone, mamma ragazzi che film) e poi due volte con quella per il Miglior Regista, nel 2005 per I Segreti di Brokeback Mountain e nel 2012 per Vita di Pi (che quell’anno meritasse Ben Affleck è un altro discorso).
Ebbene, Ang Lee torna a ben quattro anni di distanza da Vita di Pi con questo Billy Lynn, un film molto strano, dall’anima ambivalente e forse anche un po’ apolide, che è stato anche un fiasco totale al botteghino, e che è soprattutto molto dolce.
La sceneggiatura si basa sull’omonimo romanzo di Ben Fountain, e ci racconta il passato e il presente di Billy attraverso numerosi flashback sempre ben congegnati dal punto di vista visivo: le limousine di oggi diventano gli hummer militari di ieri, così come i fuochi di artificio rimandano alle esplosioni del campo di battaglia.
Notevole l’interpretazione dell’esordiente protagonista, Joe Alwyn, affiancato da attori di grande calibro come Vin Diesel, Chris Tucker e Steve Martin: per un verso o per un altro potevano risultare pesci fuor d’acqua in un film simile, visto che le loro filmografie sono molto estranee a questo tipo di produzioni, ma la bravura del regista si vede anche nel modo in cui riesce a modellare i propri attori, e Ang Lee è bravissimo a trasformare il tosto Vin Diesel in un ammirevole maestro di vita, il comico Chris Tucker in un fedele e sapiente alleato, e l’emblema della commedia americana Steve Martin in un uomo d’affari senza scrupoli.
La guerra in Iraq non è quasi mai andata bene al cinema in termini di incassi, e anche Billy Lynn non riesce a convincere il pubblico, come se gli americani di questa guerra non ne volessero proprio sentir parlare.
Come non ne può sentire parlare Ang Lee, che attraverso i personaggi secondari denuncia le motivazioni degli USA in quell’ambiguo conflitto, mentre sfrutta i personaggi principali per raccontarci una sorta di satira sociopolitica che spiega il graduale allontanamento del pubblico dalla fede patriottica.
Billy Lynn, diciannovenne eroe nazionale, si accorge di essere sul punto di venir trasformato in una mera macchina propagandistica, e ne è nauseato. Un po’ come accadeva a Steve Rogers nel primo Captain America di Joe Johnston.
E come Steve Rogers, anche Billy vorrebbe allontanarsi dal circo mediatico che gli stanno costruendo intorno, e forse vorrebbe addirittura lasciare l’esercito ma, paradossalmente, ora che è un eroe nazionale e quindi simbolo e punto di riferimento per tutti gli altri soldati statunitensi, tirarsi indietro per lui non è più un’opzione.
Forse troverà anche l’amore, durante i quattro tempi del Super Bowl, e l’unico difetto del film è proprio quello di voler condensare tutta questa accozzaglia di ingredienti in poco meno di due ore.
Un’altra critica va fatta alla tanta chiacchierata risoluzione: nel caso non lo sappiate, questo è il primo film della storia del cinema ad essere girato a 120 frame per second (il primato era detenuto finora da Peter Jackson, che con Lo Hobbit aveva raggiunto i 48 fps), e nonostante alcune sequenze davvero impressionanti a livello visivo (non sembrerà di osservare i personaggi muoversi su uno schermo, ma sembrerà di vederli in carne ed ossa davanti a voi) si ha quasi l’impressione che Ang Lee abbia voluto (o dovuto, chissà) piegare il proprio stile per favorire l’impiego della nuova tecnologia.
Ogni bordo è cristallino e i primi piani – di cui Lee fa ampio uso in questa pellicola, spesso con lunghe soggettive – sono davvero penetranti, e ci sembrerà di riuscire a scrutare l’anima degli attori attraverso i loro occhi.
Purtroppo l’innovazione tecnica ti spinge un po’ fuori dalla narrazione, perché semplicemente questo tipo di soggetto non si presta benissimo a questa risoluzione, che premia molto di più i visi giovani rispetto a quelli anziani (purtroppo per te, Steve Martin).
Certo è che fa venir voglia di chiedersi come sarebbe stato Vita di Pi a 120 fps.