Monolith – Primo Tempo – Recensione
Pubblicato il 9 Febbraio 2017 alle 18:23
Sandra è una madre dal passato travagliato che si sente oppressa dal marito Carl e decide di partire per un viaggio di una settimana con il figlioletto David a bordo della Monolith, un’auto ultratecnologica, la più sicura sul mercato. In seguito ad una serie di sfortunate circostanze, Sandra si ritrova chiusa fuori dall’auto in pieno deserto mentre David resta intrappolato all’interno dell’inespugnabile vettura.
Nell’introduzione di Monolith, Roberto Recchioni, soggettista e co-sceneggiatore della storia, spiega come l’idea sia nata per farne un film che è stato poi sviluppato contemporaneamente alla graphic novel Bonelli. Non si tratta quindi di un fumetto tratto da un film o viceversa. Sono due opere a se stanti generate dal medesimo concept. Il legame a doppio filo tra le due versioni viene ricordato sia dalla dicitura “Primo tempo” nel titolo di questo primo volume, chiaro rimando alla suddivisione di una pellicola in due metà, sia dalla tagline in quarta di copertina: “Un fumetto che è anche un film.”
Stiamo però attenti a non sminuire in questo modo il media fumetto. Nell’invasione di cinecomics a cui stiamo assistendo, si ha la sensazione che alcuni fumetti vengano ormai considerati come dei semplici storyboard in attesa che qualcuno ne tragga un film. Ecco, Monolith è una graphic novel che si regge in piedi da sola a prescindere dalla controparte cinematografica, bella o brutta, fedele o infedele che sia. E’ un’opera nella quale convergono i talenti di tre autori in piena maturità e non c’è bisogno di sapere che è “anche un film” per goderne la fruizione.
Come in precedenza sulle pagine di John Doe e Orfani, la sensibilità cinica ed estremamente razionale di Recchioni trova un dicotomico equilibrio con la personalità più sentimentale ed emotiva di Mauro Uzzeo, un’armonia riflessa nell’operato grafico di Lorenzo ‘LRNZ’ Ceccotti che mescola le logiche simmetrie dell’industrial design con una caratterizzazione estetica dei personaggi profondamente realistica, calda ed espressiva.
E’ infatti la storia di una donna dallo spirito anticonformista che sfugge ad un ambiente sterile ed opprimente, ad un’illusoria idea di vita perfetta sintetizzata dallo spot pubblicitario della Monolith in apertura. La quotidianità domestica della protagonista è fotografata da riflessi verdi gelidi e alienanti riflessi verdi e la sua fuga incorniciata in una vignetta dall’inquadratura obliqua a rendere la realtà ancor più straniante. In tal senso, Sandra è un personaggio attraente e respingente al contempo. Si empatizza con la sua volontà di sottrarsi ad una dimensione asfissiante ma si biasima per le sue negligenze come madre.
L’auto Monolith diviene estensione del marito iperprotettivo, chiara citazione da 2001: Odissea nello spazio, sia per quanto riguarda nome e colore che per l’intelligenza artificiale che la controlla. Durante la fuga della donna, balzano all’occhio altri due riferimenti, quello esplicito a Moby Dick di Melville che rimanda al confronto tra l’uomo e la natura selvaggia, e a Duel di Steven Spielberg, nel quale le angosce del protagonista erano rappresentate dal camion nero che lo inseguiva. Il nome dell’auto fa pensare anche ad un certo monismo nella percezione della donna da parte della società. La protagonista cerca di evadere da un ruolo preordinato, dalle convenzioni, dai preconcetti nei riguardi della figura femminile.
Mentre la Monolith si lascia alle spalle la civiltà e si addentra nel deserto, l’illuminazione si fa più calda e naturale e le vignette meno claustrofobiche. Almeno fino al calare delle tenebre dove ha inizio l’incubo di Sandra. La vicenda assume i connotati di uno di quei thriller che vedono il protagonista intrappolato in un luogo isolato e deve cercare di cavarsela da sola. Si pensi, in campo letterario, a Il gioco di Gerald di Stephen King oppure, in quello cinematografico, a Buried o ai recenti Paradise Beach e Mine.
Al contrario del sopracitato film di Spielberg, quindi, abbiamo un’auto ma siamo fermi. L’azione si svolge in un’unica unità di luogo e sono le scelte di sceneggiatura, il ritmo narrativo e gli espedienti estetici di LRNZ a conferire dinamismo alla lettura. Splendido l’uso di due colori teoricamente caldi che qui diventano disturbanti. Il rosso dei fanali alla luce dei quali Sandra afferma: “Dio, che freddo…” e il giallo che esplode insieme all’allarme della Monolith. Colore, suono e stato d’animo diventano un tutt’uno.
La Monolith è l’unico elemento tecnologico nell’ambiente selvaggio del deserto. Pur se fuggita dalla società, Sandra non riesce a lasciarsi alle spalle il suo disagio interiore espresso nella sequenza dell’incubo e, soprattutto, non può ignorare le sue responsabilità di madre che l’hanno seguita e giacciono intrappolate in un mostruoso senso di colpa nero su quattro ruote.