Recensione – Silence, il nuovo film di Martin Scorsese
Pubblicato il 18 Gennaio 2017 alle 16:10
Ci ha lavorato per trent’anni su Silence, Martin Scorsese, assoluto genio della cinematografia mondiale. Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō, la pellicola è ambientata nel Giappone del 17esimo secolo e racconta l’avventura di due padri gesuiti portoghesi alla ricerca del loro mentore, padre Ferreira, scomparso durante le persecuzioni dei cristiani in Giappone. Alcune voci sostengono che potrebbe aver abiurato per aver salva la vita.
Prendete La Corazzata Potëmkin, okay? 1925, di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Una delle più riuscite espressioni dell’arte cinematografica. Ma, nel guardarlo, subito balza in mente un piccolo particolare: si tratta di propaganda – propaganda sovietica – e sempre di propaganda si tratterà.
Ed è scorretta, la propaganda. Perché, più o meno velatamente, ha il solo scopo di conquistarti (per essere gentili) o di deviarti (per non esserlo).
E’ a questo che ho pensato più volte durante la proiezione di Silence, nuovo lungometraggio di Martin Scorsese. Che è, possiamo dirlo senza temere ripercussioni, un becero tentativo di propaganda religiosa. Anche abbastanza anonimo, nel suo complesso.
La fotografia fumosa Rodrigo Prieto ci accompagna per tutto il film (unica nota positiva), e lotta per tenerci svegli contro la sfilza di voice-over poco riusciti e poco coinvolgenti. Se riuscirete ad accettare che Andrew Garfield, Adam Driver e Liam Neeson sono portoghesi (io non ci sono riuscito) vi ritroverete ad assistere ad una serie di scorrettezze cinematografiche, una dietro l’altra.
Perché Garfield è sempre bello e in tiro, nonostante il suo personaggio faccia la fame per martirio? Perché le torture fisiche alle quali l’inquisitore (altra nota dolente, una macchietta comica/parossistica) sottopone i cristiani sono così piatte, così calme, com’è poi tutto il film, al limite del soporifero?
Dov’è il vero Scorsese? Anche lui si è perso in Giappone, da qualche parte? O è rimasto a Roma, al Vaticano, dove il film è stato mostrato in anteprima a 400 padri gesuiti (perché, oh, si, questo Scorsese va così fiero del suo lavoro propagandistico)?
Datelo a Mel Gibson, un film del genere, e si che vi farà interessare ai personaggi, alla vicenda, che vi farà temere per la loro incolumità, che vi farà aspettare con ansia il tanto agognato incontro con questo misterioso padre Ferreira. E’ molto più onesta la violenza grafica così cruda, quasi pornografica, de La Passione di Cristo, che quella di Silence.
Il film di Scorsese è a metà fra Sentieri Selvaggi di John Ford e Apocalypse Now di Coppola, solo che non sarebbe degno neanche di pulire lo schermo cinematografico sul quale questi due capolavori sono stati proiettati.
Che fine ha fatto Ferreira? Ha abiurato? E’ ancora fedele alla Chiesa? Si è unito ai Giapponesi? Boh. Scorsese lo sa? Boh. O meglio, certo che lo sa, eccome se lo sa, lo sa talmente bene che si dimentica di dircelo, costruendo una delle più brutte e insignificanti scene di ri-incontro. Dov’è il pathos? Dov’è la drammaticità?
E’ un film molto scorretto Silence, completamente buonista e assolutorio nei confronti dei cristiani, con una sola scena degna di nota (mi riferisco a quando il personaggio di Garfield è in prigione, e la macchina da presa è lì dentro con lui e noi guardiamo tutto in soggettiva, attraverso le sbarre: quello è Scorsese) e con tutto il resto, per parafrasare Shakespeare, della stessa sostanza di cui è fatta l’aria fritta.
A un certo punto sentiremo la voce di Dio (non sto scherzando) che arriverà ad aiutare il protagonista e lì, giuro, stavo ridendo, pensando a Jim Carrey e Morgan Freeman. Chissà perché. (Tra l’altro sollevare il protagonista di un film da ogni responsabilità per le sue azioni attraverso la voce di Dio è un’altra grande scorrettezza del film.)
Sicuramente il peggiore dei tre film religiosi della sua filmografia (L’Ultima Tentazione di Cristo è senza dubbio il più bello, con Kundun nel mezzo), fa pensare ad un vecchietto morente che ha vissuto una vita di depravazioni alla Jordan Belfort (Scorsese è stato anche un cocainomane) e che ora è in cerca dell’assoluzione. Ma è credibile quanto Kichijiro, personaggio di Silence che omaggia lo stereotipo dell’ubriacone giapponese tanto presente nei film di Kurosawa (che Scorsese adora), e che, nonostante ogni volta chieda la confessione e il perdono, continua imperterrito a peccare.
Ma se chiedi scusa perdoneremo anche te, caro Martin. Come potremmo non farlo, del resto?