Dylan Dog n. 364: Gli anni selvaggi – Recensione
Pubblicato il 4 Gennaio 2017 alle 22:56
Dylan ritrova Vincent, un amico degli anni dell’adolescenza durante i quali l’indagatore dell’incubo era il road manager della rock band Bloody Hell e viveva una struggente storia d’amore con la bella Emily. Nel frattempo a Londra si verificano una serie di fatti di sangue legati all’ascolto del disco The Killing Machine.
Tra le mille, umane contraddizioni di Dylan Dog c’è quella di dilettarsi al clarinetto, provando e riprovando Il Trillo del Diavolo di Tartini, e possedere al contempo un’anima rock come testimoniano le tante canzoni che hanno fatto da colonna sonora in alcuni albi della serie e quel poster del Rocky Horror Picture Show esposto nel suo studio a Craven Road.
Si tratta tuttavia di un aspetto del personaggio che non è mai stato particolarmente approfondito. Ci pensa Barbara Baraldi che prosegue idealmente l’excursus nel passato inedito di Dylan iniziato nei mesi scorsi. Siamo tornati alla sue origini seicentesche in Mater Dolorosa passando poi ai ricordi d’infanzia in Cose Perdute ed approdiamo alla sua adolescenza, reduce dai fatti di Moonlight e dalla sofferta storia d’amore con Marina Kimball.
Nella sua dimensione cristallizzata, Dylan dovrebbe avere intorno ai 35 anni, lui e l’amico Vincent non si vedono da vent’anni e anche se non viene fatto alcun riferimento ad un anno specifico, le coordinate temporali fornite dall’abbigliamento e dalle citazioni musicali lasciano intendere che lo spaccato giovanile a cui assistiamo si svolge negli anni ’90. Per noi lettori, Dylan era già un adulto in quel periodo. Questo significa attualizzare un personaggio che non invecchia nel presente ma deve tenersi al passo con i tempi per quanto riguarda la sua back-story.
Nicola Mari torna a collaborare con la Baraldi dopo La mano sbagliata, albo d’esordio della sceneggiatrice sulla serie regolare. Lo stile dark e goticheggiante del disegnatore, le sue figure affusolate e ombrose, calzano a pennello con le atmosfere della storia e con il periodo di riferimento con un gustosa ricchezza di dettagli nei costumi e nelle ambientazioni. Tra le sequenze di maggior efficacia, il delirio di Dylan sotto l’effetto di droghe e le sequenze degli omicidi con molto splatter e un pizzico di sesso senza scadere troppo nell’exploitation.
Un po’ com’è successo il mese scorso con la storia di Paola Barbato, il caso di questa musica assassina che esce dal disco The Killing Machine è piuttosto convenzionale per l’indagatore dell’incubo e il concept viene potenziato coinvolgendo Dylan in prima persona, non solo sul piano professionale ma anche umano. In tal senso il lungo flashback denota la volontà della sceneggiatrice di ripercorrere sentieri già collaudati costruendo l’ennesima, sofferta storia d’amore del passato di Dylan che non può però reggere il confronto con Lillie Connolly o con la sopracitata Marina.
La retorica della storia circa la macchina del successo rispecchia il moralismo di Dylan e i dialoghi sono ricchi di filosofia spicciola e di quelle “frasi storiche” che caratterizzano il protagonista. Nonostante gli eventi sovrannaturali che si stanno verificando, Dylan non svolge qui alcuna indagine, solo un viaggio nel passato e non sarà nemmeno lui a risolvere la situazione, troppo antieroe testimone degli eventi seppure emotivamente coinvolto nella vicenda.