Arrival – Recensione

Pubblicato il 21 Gennaio 2017 alle 22:48

Dodici astronavi extraterrestri atterrano in altrettante zone del nostro pianeta. Il colonnello Weber, dell’esercito USA, forma una squadra d’elite della quale fanno parte la linguista Louise Banks e il fisico teorico Ian Donnelly. Lo scopo del team è quello di entrare in contatto con gli alieni atterrati nel Montana e trovare un modo per comunicare con loro prima che scoppi una guerra globale.

E’ ambiziosa la svolta fantascientifica del franco-canadese Denis Villeneuve, uno dei talenti più brillanti nel panorama registico contemporaneo che si è fatto le ossa con il genere thriller. Arrival, rilettura in chiave moderna di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg con ovvi riferimenti a 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick, sembra aver aperto un nuovo capitolo per Villeneuve che ha deciso di cimentarsi nientemeno che con il sequel di Blade Runner e pare voglia realizzare un remake-reboot di Dune.

Tratto dal racconto Storia della tua vita, di Ted Chiang, la sovrastruttura fantascientifica di Arrival cela un autentico saggio sulla comunicazione e il linguaggio. La simbolica barriera tra i protagonisti e gli eptapodi alieni diviene schermo, lavagna su cui gli extraterrestri spruzzano il loro inchiostro in geroglifici circolari da decifrare. E’ qui che la mano di Amy Adams si apre in cerca di un contatto con il tentacolo alieno come le dita di E.T. e del piccolo Elliott.

E’ interessante quindi come Villeneuve usi il mezzo espressivo in un film che parla proprio di linguaggio. L’autore resta fedele al rigore e all’eleganza formale che lo contraddistinguono senza cedere a virtuosismi o guizzi autoreferenziali.

Veniamo introdotti nelle ambientazioni della storia insieme alla Adams, con piani sequenza che partono sempre dalle spalle dell’attrice fornendoci il suo punto di vista e andando poi a scavare nel suo intimo attraverso i flashback. Anche se buona parte della storia si svolge in poche unità di luogo, scelte registiche, montaggio e fotografia, sempre fortemente comunicative, riescono a variegare la narrazione per immagini.

Nella cinematografia di Villeneuve, la comunione tra forma e contenuto, seppur efficace, avrebbe bisogno di un’ulteriore limata. In Incontri ravvicinati del terzo tipo, il dialogo tra terrestri ed alieni avveniva attraverso suoni e luci colorate. Non c’era bisogno di una didascalia esplicativa. Quello che ascoltavano e vedevano i personaggi del film era esattamente quello che ascoltava e vedeva il pubblico, né più né meno. Il linguaggio cinematografico e il dialogo tra civiltà di mondi differenti diventava un tutt’uno attraverso l’universalità di immagini e musica.

Villeneuve, invece, non coniuga ancora alla perfezione le due componenti, tanto da aver bisogno, in uno dei dialoghi fondamentali della storia, di inserire i sottotitoli per rendere la conversazione comprensibile al pubblico.

La vicenda assume i connotati di un serrato thriller politico che esplode in tutta la sua potenza emotiva nel finale. Qui la forma diviene contenuto in maniera molto più efficace. I geroglifici degli alieni, nella loro forma calligrafica, oltre a costituire la risoluzione del mistero divengono anche riflesso della struttura circolare del film. Il paradosso conclusivo dimostra una volta ancora come la migliore fantascienza non sia quella che intende svelare i segreti dell’universo bensì quella che guarda alle stelle per raccontare noi stessi.

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