Passengers – Recensione
Pubblicato il 31 Dicembre 2016 alle 00:04
L’astronave Avalon sta trasportando cinquemila colonizzatori in criostasi verso il pianeta Homestead II. A causa di un malfunzionamento, l’ingegnere meccanico Jim Preston si sveglia con novant’anni d’anticipo e la prospettiva di dover trascorrere tutta la vita da solo. Dopo un anno, prende la controversa decisione di svegliare Aurora, una giovane scrittrice col quale condividere il resto della sua esistenza.
L’incipit è avvincente e i numeri per un gran film di fantascienza c’erano tutti, a cominciare dal regista norvegese Morten Tyldum, reduce dal bellissimo The Imitation Game, e dai due attori protagonisti, il guascone Chris Pratt (Guardiani della Galassia, Jurassic World) e la premio Oscar Jennifer Lawrence. Eppure non sono bastati ad evitare un flop di critica e pubblico.
In questo caso è la sceneggiatura a fare la differenza. Nella sua prova precedente, il regista era affiancato dal pluripremiato Graham Moore mentre qui deve tradurre lo script zoppicante di Jon Spaihts (Prometheus, Doctor Strange, i prossimi Pacific Rim Maelstrom e La Mummia) che non si rivela all’altezza della propria ambizione. L’intenzione era quella di realizzare un Titanic fantascientifico ma viene gravato da una componente romance invadente e stucchevole.
La storia è suddivisa in tre parti. Nella prima mezz’ora seguiamo le vicende di Pratt da solo sull’astronave, con l’unica compagnia del robot-barista Michael Sheen che rifà il verso a Shining, una delle tante citazioni da Kubrick qui proposte.
La seconda parte affoga nello zucchero della storia d’amore patinatissima con la Lawrence, perennemente truccata e vestita con abiti elegantissimi, in alcuni casi fuori luogo. Ed ogni pretesto è buono per metterne in mostra le grazie. Gli elementi fantascientifici vengono piegati ad esigenze romance con sofisticatissimi robot utilizzati per consegnare bigliettini d’amore e pericolose uscite nello spazio trasformate in passeggiate romantiche. Dalle premesse ci si aspettava un tono più rigoroso, neanche lo Star Wars più svagato si permette certe leggerezze.
Nella terza parte c’è la prevedibile svolta e le conseguenze che il protagonista deve affrontare per aver deciso di svegliare la compagna anzitempo contro la sua volontà. La sceneggiatura cerca qui di mettere in campo la controversa tematica dell’eutanasia, il risveglio come condanna a morte, una sorta di provocazione sull’accanimento terapeutico, ma è del tutto confuso ed inefficace.
Entra in campo anche Laurence Fishburne, con la sua bella divisa fresca di bucato dell’Enterprise, chiamato a risolvere un mistero che per il pubblico non è tale. Viene infatti mostrata nel prologo la causa del malfunzionamento della criostasi, un imperdonabile errore di struttura per una sceneggiatura. L’ultima parte concede finalmente un pizzico di thrilling ma Tyldum mostra la sua imbarazzante inadeguatezza per l’action, le dinamiche sono convenzionali e risolte in poche battute e tutto crolla nell’epilogo assolutorio con il trionfo stucchevole e disonesto dei buoni sentimenti.