Il caso Rogue One: è giusto riportare in vita attori defunti?
Pubblicato il 17 Dicembre 2016 alle 14:25
In Rogue One la resurrezione di Peter Cushing grazie al CGI è emozionante e sbalorditiva, visivamente parlando … ma dal punto di vista morale ed etico?
Avete mai visto The Congress di Ari Folman?
Si tratta di uno sci/fi del 2013 che unisce riprese live-action e animazione, con protagonista Robin Wright (si, la Claire Underwood di House of Cards). Nel film la bella Robin interpreta una versione di se stessa ormai alla frutta, con la carriera in declino e svariati problemi personali. Così alla frutta che decide di firmare un contratto con uno studio cinematografico che la scannerizzerà trasformandola in un personaggio digitale da sfruttare all’infinito e mettere a disposizione per la generazioni future.
Perché il digitale non invecchia e non muore, dopotutto.
Una delle battute più emblematiche (e francamente anche piuttosto inquietanti) è quella di Jeff, interpretato da Danny Houston: “Vogliamo scannerizzarti, vogliamo scannerizzare ogni parte di te: il tuo corpo, il tuo viso, le tue emozioni, le tue risate, le tue lacrime. Vogliamo immagazzinarti, preservarti. Vogliamo possedere questa piccola cosetta chiamata Robin Wright.”
Stacco, flashforward veloce e dal 2013 arriviamo in un batter d’occhio ad oggi, nel bel mezzo del crepuscolo del 2016.
Peter Cushing risorge sugli schermi cinematografici di tutto il mondo grazie alla magia della computer grafica, perché Gareth Edwards vuole che il suo generale Tarkin – indimenticabile e freddissimo personaggio di Una Nuova Speranza – abbia una parte in Rogue One.
E così eccolo lì, il glaciale Wilhuff Tarkin, pragmatico e calcolatore, di nuovo alle redini della Morte Nera, nonostante Peter Cushing sia morto più di vent’anni fa. L’11 agosto del ’94, per la precisione. A Canterbury, Inghilterra.
“Dio preservi tutta questa splendida compagnia”, avrebbero potuto scrivere sulla sua lapide. Ma anche no, in fondo, perché né Geoffrey Chaucer né tanto meno Dio hanno a che fare con la resurrezione di Cushing, che nella sua lunghissima e gloriosa carriera è stato anche (fra gli altri) Victor Frankenstein, Sherlock Holmes, Van Helsing e Doctor Who.
Il merito di questa resurrezione lo si deve ai talenti dell’arte digitale in forze alla LucasFilm, casa di produzione fondata da George Lucas che ormai dal lontanissimo 1971 insegna al mondo del cinema cosa sia effettistica all’avanguardia.
Ma si tratta davvero di un merito?
Definito come uno degli effetti speciali più complessi e costosi di sempre, la ricostruzione digitale di Cushing è sicuramente strabiliante dal punto di vista visivo e io stesso, quando ho visto comparire Tarkin, quando l’ho visto muoversi, parlare, interagire con gli altri attori (vivi), sono rimasto senza fiato. Eppure, uscito dalla sala, riflettendoci su mi sono chiesto: una cosa del genere è giusta?
E’ giusto copia-incollare un attore defunto da anni e farlo rivivere grazie al computer, in una sorta di necromanzia digitale?
Nella storia del cinema abbiamo già avuto esempi di attori tornati in vita grazie ai maghi del digitale: Brandon Lee morì durante le riprese de Il Corvo, e alcune riprese furono completate con delle controfigure dell’attore, ma anche grazie a trucchi cinematografici; stessa cosa accaduta ne Il Gladiatore, quando a causa dell’improvviso decesso di Oliver Reed, Ridley Scott dovette riutilizzare una vecchia inquadratura del volto dell’attore per completare una scena fondamentale per lo svolgimento della trama.
Ma questa necromanzia del ventunesimo secolo non è stata sfruttata solo dal cinema: nel 2012, durante il Festival Coachella in California, i rapper Dr Dre e Snoop Dogg sono stati raggiunti sul palco dall’ologramma del collega Tupac Shakur, ucciso a Las Vegas ben sedici anni prima.
Più recentemente, invece, abbiamo visto attori ringiovaniti dal digitale: pensate a Robert Downey Jr. in Civil War, ma anche ad Anthony Hopkins nella serie tv HBO Westworld (e occhio, perché anche uno storico personaggio di Star Wars potrebbe essere stato ringiovanito in Rogue One).
La prima domanda che sorge spontanea è: chi viene pagato per il ruolo di un attore resuscitato digitalmente? I tecnici responsabili della CGI? Gli eredi dell’attore? Si noti come Peter Cushing non sia accreditato nel film di Gareth Edwards, ma tra contratti stipulati, diritti d’immagine e licenze di studi cinematografici il territorio verso il quale questa considerazione conduce è troppo spinoso ed irto di cavilli burocratici per un non-avvocato e un non-analista.
Dunque passiamo alla seconda domanda, che è anche il succo principale della questione: è giusto che il cinema si faccia carico di questo?
Filosoficamente, moralmente, ed eticamente parlando, le considerazioni si sprecano e i punti di vista si scontrano. In quella che molti considerano l’era dei reboot e dei remake, siamo pronti per un re-cast di attori defunti riportati in auge grazie al digitale? Pensate a come sarebbe rivedere ancora una volta Marlon Brandon, o John Wayne, o Grace Kelly. Ammirare James Dean che flirta con Scarlett Johansson, o Marilyn Monroe che fa la gatta morta con Leonardo Di Caprio.
Se un regista pensa che un attore del passato possa essere perfetto per un ruolo nel suo film, pensate sia legittimato ad utilizzare una versione digitale di quell’attore? E quell’attore (quella persona) a quel punto sarebbe ridotto a marionetta computerizzata, oppure trascenderebbe la vita stessa diventando un tutt’uno con l’arte cinematografica?
Il pubblico è pronto per una cosa del genere? Voi lo siete? Sembra la base per un episodio di Black Mirror, ma è realtà. Gareth Edward l’ha già fatto con Peter Cushing, quindi chissà.
Quel che è certo è che la LucasFilm ha scoperchiato un bel vaso di Pandora. Per adesso, com’è stato detto in sedi più eleganti di questa … ai posteri l’ardua sentenza.