Dylan Dog n. 363: Cose perdute – Recensione

Pubblicato il 30 Novembre 2016 alle 23:04

Dylan Dog è preda di un forte stress psicofisico ed è tormentato da incubi e allucinazioni mentre qualcuno gli invia degli oggetti legati al suo passato. Con l’aiuto di alcuni analisti, l’indagatore dell’incubo tenta di sbloccare un oscuro ricordo della sua infanzia connesso, in qualche modo, ad una serie di misteriosi omicidi che si stanno verificando a Londra.

C’è un tassello mancante nel passato di Dylan Dog. Sappiamo che è nato alla fine del ‘600, è finito in un orfanotrofio londinese dove ha vissuto un salto avanti nel tempo di tre secoli ritrovandosi, ancora bambino, negli anni ’50. Abbiamo assistito ad un importante spaccato della sua adolescenza, la sofferta storia d’amore con Marina durante la vacanza estiva a Moonlight. Sono poi stati ampiamente approfonditi i suoi trascorsi come alcolista e la transizione da agente di Scotland Yard ad indagatore dell’incubo. Non sappiamo però quasi nulla della sua infanzia trascorsa a Crossgate e della sua famiglia adottiva.

Il velo di mistero inizia ad essere sollevato da Paola Barbato che, più di ogni altro sceneggiatore della serie, si è occupata della stretta continuity del protagonista dopo l’abbandono di Tiziano Sclavi. L’albo del mese scorso ha visto lo storico ritorno del papà di Dylan Dog sulle pagine della serie ed ha dato inizio a quella che pare una nuova fase nell’attuale gestione editoriale.

Non a caso Gigi Cavenago esordisce proprio questo mese come nuovo copertinista raccogliendo il testimone da Angelo Stano. Il disegnatore concede la rara ribalta della cover a Groucho affiancandolo all’indagatore dell’incubo nella tradizionale cornice dello studio di Craven Road. I colori caldi si fanno gelidi nell’aura che circonda lo “spettro” del piccolo Dylan.

La storia è una summa di tutte le peculiarità narrative della Barbato. Laddove Sclavi è il legittimo possessore della chiave di decodificazione del suo personaggio, la sceneggiatrice milanese è sempre stata la migliore a scardinare Dylan dall’esterno, un po’ psicologa e un po’ aguzzina, e qui ritroviamo molte delle tematiche a lei care.

Diciamola tutta, la componente investigativa, il caso da risolvere, sarebbe piuttosto convenzionale e si presterebbe ad una delle trascurabili storie di maniera dell’indagatore dell’incubo. Ma la Barbato sa benissimo che uno degli espedienti per rendere il racconto appassionante è quello di coinvolgere Dylan in prima persona, facendogli vivere l’orrore sulla sua pelle anziché limitarlo ad indagare sul caso del mese.

In tal senso, la vicenda è in continuity con l’albo del mese scorso e ritroviamo il protagonista reduce dalla ricaduta nell’alcolismo e tormentato da qualcuno che gli invia oggetti legati al suo passato firmandosi con la lettera B., un probabile gioco autoreferenziale dell’autrice. Anche quando la figura misteriosa, nascosta in un vicolo, si chiede: “Dylan… Dylan… Perché sei tu Dylan?” sembra riflettere l’interrogativo sulle origini del personaggio che la sceneggiatrice è chiamata a risolvere.

La passione della Barbato per la psicologia si evince da molte delle sue opere e l’analisi introspettiva dei personaggi è uno dei punti forti della sua narrativa. E’ dunque giustificato un ritorno forte dei balloon pensiero per eviscerare lo stato emotivo di Dylan. Sono quindi emanazione della Barbato, quasi suoi avatar cartacei, anche gli psicoterapeuti che scoprono il passato dell’indagatore dell’incubo insieme a lui.

Ne vien fuori il ritratto di un piccolo Dylan solo ed introverso. Il puzzle rimanda ai suoi immaginari amici d’infanzia, già introdotti dall’autrice nella storia La follia di Pete Brennan, pubblicata sul Maxi Dylan Dog n. 24. Si tratta dell’orsacchiotto Bister Beer; Nalyd, immagine riflessa di Dylan; Kub, che prende corpo negli spazi bui dove i bambini proiettano le proprie paure e Welly, la ragazzina in fondo al pozzo, una sorta di Samara da The Ring.

Le dinamiche procedurali vengono lasciate a Bloch e Carpenter che costituiscono una riuscita dicotomia laddove l’ex-ispettore si dimostra molto più empatico del suo sostituto. Rania fa da ago della bilancia. Giovanni Freghieri, disegnatore di lunga data della serie, è sempre efficace nell’introdurre sequenze allucinate e oniriche in un contesto fortemente concreto. La parte più cruenta nelle sequenze degli omicidi non viene mostrato evitando quindi di scadere nell’exploitation.

La risoluzione va a parare ad una squallida vicenda di provincia nella quale tutti sono colpevoli e non c’è redenzione per nessuno. Forse neanche per Dylan. L’apparente assoluzione dell’antieroe può risultare sconfessata dall’inquietante comportamento dei suoi amici immaginari che denotano un lato oscuro e una crudeltà di cui solo i bambini sanno essere capaci.

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