Recensione – Free State of Jones
Pubblicato il 1 Dicembre 2016 alle 15:25
Gary Ross torna alla regia dopo quattro anni d’assenza e dirige un Matthew McConaughey che si ribella alle leggi sudiste nell’America della guerra di secessione.
40 acri e un mulo. Era questo il risarcimento pensato per gli ex schiavi neri alla fine della guerra di secessione. Ironicamente con la morte di Lincoln perfino questo misero risarcimento fu negato ai poveri niggers, cosa che in retrospettiva ha assunto un sapore così tragicomico che la frase “40 acri e un mulo” è diventata oggetto di scherno nella cultura pop (penso alle canzoni di Kanye West, o di Kendrick Lamar, o a Spike Lee, che ha chiamato la sua casa di produzione proprio 40 Acres & a Mule Filmworks).
In tempi così suscettibili ed ipersensibili al problema del razzismo, si torna a parlare di quei 40 acri e di quel mulo e si torna a parlare di schiavitù. Dopo il problematico e controverso The Birth of a Nation di Nate Parker, arrivato in anteprima in Italia al Festival del Cinema di Roma, scende in campo Free State of Jones di Gary Ross. A differenza del film di Parker, piuttosto che raccontare l’insorgere del popolo nero Ross punta sull’uguaglianza e sull’unione dei poveri contro i ricchi, ma anche in questo caso lo sforzo porta ad un risultato modesto, per non dire inconcludente.
Se è vero che le lezioni di storia per alcuni possono risultare noiose a causa di libri di testo poco avvincenti, allora è doppiamente vero che un film poco avvincente non può camuffarsi da lezione di storia. E il problema principale di questo Free State of Jones è che non si è capito molto bene cosa voglia essere: cinema d’intrattenimento (che Ross comunque ha dimostrato di conoscere molto bene con Hunger Games) o lezione di storia di quasi due ore e mezza?
Ross ci racconta l’incredibile vicenda di Newton Knight, un infermiere dell’esercito sudista che alla morte del nipote decide di disertare e smetterla di combattere in una guerra che non sente sua. Insieme a degli schiavi fuggitivi e altri sudisti che la pensano come lui instaurerà lo Stato Libero di Jones, che combatterà l’esercito Confederato dall’interno ma che non verrà mai riconosciuto come alleato dall’esercito dell’Unione.
Un po’ Robin Hood, quindi, con un pugno di Braveheart e un pizzico de I Sette Samurai, ma di molto inferiore a tutto ciò che è venuto prima. E’ un film assolutamente senza mordente, che si regge in bilico grazie al fascino della storia vera che vuole raccontare, ma che da un punto di vista drammatico fallisce di continuo.
Ricordo di essermi stupito quando vidi per la prima volta il trailer della pellicola (stupito in negativo, chiaro): mi chiesi come mai avessero deciso di spoilerare una scena che a prima vista sembrava particolarmente avvincente inserendola nel trailer (quella dell’assalto ai soldati confederati durante il funerale, con Newt e i suoi che sbucano dalle casse da morto e sparano all’impazzata), ma durante la visione del film è stato lampante fin dai primi minuti che creare suspance o drammaticità al regista proprio non interessava.
Newt viene anche abbandonato dalla moglie (Keri Russel), e si innamora di una schiava (e vorrei vedere: lei è interpretata da Gugu Mbatha-Raw, la bella Kelly di quel capolavoro che è San Jupitero, quarto episodio di Black Mirror 3) ma non c’è romanticismo, non c’è passione, e legarci a uno qualunque di questi personaggi è molto difficile.
L’unica scena che ci lascia qualcosa è quella fra le due mogli di Newt, con quella bianca che prende il figlio di quella nera e lo culla come se fosse suo, riuscendo a calmarlo. Per il resto Ross prosegue disinvolto nella sua lezione di storia americana e ogni nuova scena sembra un altro paragrafo dattiloscritto sulla pagina di un tomo universitario.
Vediamo il Newt leader politico, il Newt leader sociale, e anche il Newt messianico (è molto marcato il tema della religione) ma questo suo stato ideale dovrà confrontarsi con la realtà dei fatti. Una realtà dei fatti che è, indovinate un po’, razzista.
Si, razzista. Quello in cui si muove Newt è un mondo razzista, e il film col suo progredire ce lo ricorda in continuazione: la Guerra Civile finisce ma gli schiavi vengono ancora venduti e comprati, ora però sotto la categoria di “apprendisti”; nasce il Ku Kluz Klan e le fattorie dei neri vengono bruciate e i neri impiccati; addirittura (tanto per fare ancora più confusione) dei flashforward ci mostrano un discendente di Newt e della sua seconda moglie di colore che, anche se caucasico, è riconosciuto dal tribunale del Mississippi come “nero per un ottavo”, e il suo matrimonio con una ragazza bianca è quindi da invalidare. A un certo punto non si capisce più se il film è su Newt o su questo discendete, con un finale che definire caotico e sbrigativo sarebbe un complimento.
Che il film parli di razzismo lo si sapeva già prima dei titoli di testa, ma Ross non fa che martellare e martellare su questo chiodo quasi che voglia conficcarcelo nella testa. Il tutto senza un briciolo di passione.
Una delle poche cose interessanti è la data d’uscita italiana (negli States è uscito a giugno), così a ridosso delle votazioni per il referendum: magari il film di Ross non sarà un granché, ma la storia di Newton Knight può far riflettere su quanto sia importante dire la nostra, e sul come una società non possa essere cambiata a meno che non siano le persone a volerlo.