Dylan Dog n. 362: Dopo un lungo silenzio – Recensione

Pubblicato il 2 Novembre 2016 alle 16:33

Dylan Dog precipita di nuovo nel tunnel dell’alcolismo quando conosce Crystal, la sua nuova fiamma. Nel frattempo l’indagatore dell’incubo viene ingaggiato da Owen Travers, affetto dallo stesso vizio, alle prese con il fantasma della moglie defunta. Mentre Dylan combatte coi demoni della dipendenza deve cercare di capire le origini dalla presenza sovrannaturale.

Uno dei meriti dell’attuale direzione editoriale di Dylan Dog è quello di aver stimolato Tiziano Sclavi, papà dell’indagatore dell’incubo, a tornare al lavoro sulla sua creatura, ciliegina sulla torta per il trentesimo anniversario del personaggio. Non solo Sclavi ha scritto due nuove storie per la serie regolare ma è anche l’autore di una nuova testata intitolata Dylan Dog – Le storie del futuro che partirà prossimamente.

Dopo un lungo silenzio è quindi un titolo che ha doppia valenza. Non solo si riferisce ai contenuti della storia ma anche alla pluriennale assenza dello sceneggiatore pavese dai testi della serie. La cover è un’autocitazione dal romanzo di Sclavi Non è successo niente che aveva in copertina la prima pagina di un quotidiano completamente bianca ma è anche un riferimento ad un’assenza percettibile, ad un vuoto interiore e al silenzio che permea buona parte della storia.

In seconda di copertina, con gli editoriali completamente in bianco, viene specificato che l’autore della cover è Nessuno, tanto per giocare con la mitologia dell’autore e anche per segnare un punto di svolta editoriale. Dal prossimo numero, infatti, le copertine saranno disegnate da Gigi Cavenago che succede a Claudio Villa e ad Angelo Stano, copertinista dal 1990.

Dylan Dog è un personaggio che, come pochi altri, necessita di un approccio fortemente autoriale ed empatico per poter risultare davvero efficace. Sclavi ha sempre intessuto nell’indagatore dell’incubo alcuni dei propri demoni personali, a partire dai suoi trascorsi come alcolista. La ricaduta di Dylan nel vizio è quindi un evento fondamentale che sembra avere come elemento catalizzatore la nuova fiamma Crystal.

All’apparenza si tratta dell’ennesima storia d’amore passeggera, e probabilmente è così, eppure Dylan, complici anche i fumi dell’alcol, pensa che lei potrebbe essere finalmente “quella giusta”. Magari è solo una suggestione ma salta all’occhio la somiglianza della ragazza con la prostituta Bree Daniels, uno dei grandi amori perduti di Dylan.

La prima vignetta di tavola 16 richiama alla mente quella nella quale Bree si presentava ai lettori nel capolavoro Memorie dell’invisibile, che pure era disegnato da Giampiero Casertano le cui collaborazioni con Sclavi sulle pagine della serie hanno prodotto autentiche perle. I capelli biondi corti, la testa lievemente inclinata a destra, una gonna nera ed una cinta molto simili a quelle che indossava Bree, una mise che Crystal sfoggia per tutta la storia tranne che nella risolutiva sequenza finale.

Lo ripetiamo, potrebbe trattarsi di una semplice suggestione. Bree non viene mai citata esplicitamente nella storia né vengono approfonditi gli eventuali risvolti psicologici per il protagonista. La ricaduta di Dylan nell’alcolismo potrebbe avere motivazioni più semplici. Per un ex-alcolista basta una semplice, occasionale trasgressione per ritrovarsi di nuovo intrappolati nella dipendenza. Ma in una storia in cui un altro alcolista è perseguitato dal fantasma della defunta moglie, è avvincente l’idea che Crystal possa rappresentare per Dylan uno spettro del passato.

Sclavi struttura la storia in maniera molto semplice, attraverso una sceneggiatura ordinata, ritrovandosi piuttosto a suo agio nell’attuale continuity ed ancorandosi al reale. La sottrazione dell’elemento horror è la componente dell’albo che lascia maggiormente spiazzati. Non muore nessuno, non ci sono sequenze metafisiche né splatter, tranne l’allucinato delirio di Dylan nel finale.

Membro del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale), Sclavi sconfessa l’ipotesi sovrannaturale ricorrendo ad “autentiche” foto spiritiche, puntualmente sbugiardate. Un bello schiaffo a quelle opere di fiction horror, in special modo cinematografiche, che usano l’espediente dei “fatti realmente accaduti” e “documentati” per attirare il pubblico.

La discesa all’inferno di Dylan poteva essere rappresentata in maniera ancor più viscerale ma la dicotomia con il povero Owen funziona. Gli spettri, più che una presenza inquietante, divengono la dolorosa rappresentazione di un distacco esprimendo un disagio interiore. Ancora una volta Sclavi ci dice che il vero orrore sta nella condizione umana e nella disperazione dei protagonisti che trovano un punto di contatto nella loro emarginazione.

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