Recensione – Sono la bella creatura che vive in questa casa
Pubblicato il 31 Ottobre 2016 alle 21:00
Presentato al Toronto International Film Festival, l’horror prodotto da Netflix arriva sulla piattaforma di streaming on demand in tempo per la festa di Halloween. A dirigerlo Osgood Perkins, figlio dell’indimenticabile Anthony Perkins reso celebre da Alfred Hitchcock in Psyco.
In tempi di crisi ogni offerta di lavoro è sempre gradita, anche quelle che prevedono di trasferirsi in una vecchia casa scricchiolante e diventare la badante a tempo pieno di una vecchiettina semi-catatonica. Ma se la vecchiettina semi-catatonica è stata una scrittrice di romanzi horror di successo e la casa scricchiolante in questione nasconde qualche segreto, allora le cose cambiano.
Il progetto di Netflix è alquanto ambizioso e controcorrente rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare da una major (è il caso di iniziare a trattare Netflix in questo modo): l’horror di Perkins è molto artistico e orgogliosamente autoriale, quanto di meno commerciale si possa trovare sulla piazza; è, in poche parole (anche brutalmente) un film che non piacerà affatto al pubblico generalista.
Per intenderci: è più It Follows o The Witch che una qualsiasi produzione targata James Wan, e rientra perfettamente nel nuovo e pluridichiarato obiettivo della piattaforma di streaming di voler valorizzare le proprie produzioni cinematografiche e non solo quelle televisive.
Non a caso la pellicola è stata presentata durante uno dei festival cinematografici più importanti del mondo, un po’ come accadde a Beasts of No Nation di Fukunaga, che approdò a Venezia.
Ma lasciamo da parte questo discorso e concentriamoci sulla seconda opera di Osgood Perkins (Oz, per gli amici): l’anno scorso aveva stupito con il sorprendente The Blackcoat’s Daughter, e con I Am The Pretty Things Who Lives in the House si conferma un gran conoscitore del genere horror e delle sue tempistiche.
Lily (Ruth Wilson) è un’infermiera che accetta di prendersi cura della celebre Iris Blum, una scrittrice di romanzi horror ormai con un piede nella fossa e preda di un’incalzante demenza senile. L’anziana inizia subito a confondere Lily con Polly, la protagonista del suo più celebre romanzo, La Ragazza nel Muro (una chiara citazione ad Edgar Allan Poe), una ragazza davvero esistita nel 19esimo secolo: Polly fu brutalmente uccisa in quella casa dal marito e nascosta in una parete, la stessa sulla quale Lily, oggi, vede crescere una bruttissima macchia di muffa.
Il film è elegante e fine, estremamente gotico e molto, molto inquietante. Anche vintage, in un certo senso, perché seguendo la tradizione di Kubrick, Lynch o Polanski, anche Perkins si distacca molto dalle produzioni contemporanee, pieni di splatter o caratterizzate da jump-scare gratuiti: il regista sa che c’è una differenza sostanziale (e fondamentale per la riuscita di un buon film horror) fra spavento e paura, ed è chiaro che lo scopo di questa pellicola non sia tanto il successo al botteghino, quanto che la paura riesca ad insinuarsi nello spettatore in un crescendo opprimente, a cominciare dalla scena iniziale dalla forte matrice impressionista.
Questo è un film sul marcire, sull’appassire, sulla caducità della vita e sul senso di profondo, assoluto oblio che pervade la mente quando si interroga sull’aldilà.
La sceneggiatura incanta con monologhi poetici sulla morte e sulla vita dopo la morte, perfettamente recitati dalla vincitrice del Golden Globe per la televisione Ruth Wilson (Luther, The Affair) qui al suo primo ruolo da protagonista cinematografico.
Molto talentuosa e ben diretta da Perkins, la Wilson gestisce il ruolo con perfetto apblomb e dona alla sua Lily il proprio accento americano, comunque credibilissimo: una prova molto buona, che dimostra quanto questa attrice non sia solo labbra affilate e sensuali e sguardi molto erotici, ma anche urla e singhiozzi e una buonissima maschera di paura.
Menzione a parte per la direttrice della fotografia Julie Kirkwood e la perturbante prova delle sue luci, che giocano sapientemente con le luci. La Kirkwood e Perkins intrappolano la protagonista in grandangoli barocchi e zoom glaciali, lenti e distaccati. Un plauso anche alle musiche di Elvis Perkins, fratello del regista, in grado di amplificare la suspance in maniera incalzante con il suo pianoforte e palette sonore che sembrano strisciare e avanzare non viste nel buio.