Recensione – Westworld 1×04: “Dissonance Theory”

Pubblicato il 25 Ottobre 2016 alle 21:00

“Qui siamo come dei, e voi siete i nostri ospiti”.

Quella conclusasi domenica è stata un gran settimana per il genere western: è stato diffuso il primo trailer di Red Dead Redemption 2, attesissimo videogame targato Rockstar ambientato proprio nel selvaggio West; abbiamo visto le prime immagini di Logan, ultimo capitolo della saga cinematografica di Wolverine, che sembra avere un fortissimo retrogusto western (o comunque neo-western) anche grazie alla colonna sonora di Johnny Cash; e, al Festival del Cinema di Roma, è stato proiettato il nuovo film Netflix Hell or High Water (qui trovate la recensione), un western con ambientazione moderna perfetto sotto ogni suo piccolo dettaglio.

E una nuova settimana inizia all’insegna del western, con un nuovo episodio di Westworld. 

Era il 1991 quando Anthony Hopkins mostrò al mondo quanto potesse essere credibile e spaventoso nei panni di un personaggio appena appena megalomane. E Jonathan Nolan dev’essersi scorticato le mani a forza di sfregare i palmi per l’emozione quando la produzione gli ha comunicato che sarebbe stato proprio Hopkins ad interpretare il suo ambiguo dottor Ford.

Beninteso, in questo quarto episodio di Westworld, di gran lunga la miglior serie ad oggi in circolazione, il canuto e delizioso settantanovenne premio Oscar non uccide né divora nessuno (anche se c’è un bel rimando a Il Silenzio degli Innocenti, con quel vino rosso che magari non sarà stato un Chianti, però, però …) eppure, wow, quanto è stata inquietante quella scena con Theresa?

Il dottor Ford sa tutto di tutti, quindi occhio a non farlo innervosire e/o mettersi sulla sua strada. Ma quale sarà la sua strada? Cosa ha in mente con quei giganteschi bulldozer? E’ lui il vero villain della serie? Vuole bene ai suoi host oppure per lui le sue creazioni non significano niente? O al contrario li ama, ma finge che per lui non abbiano alcuna importanza?

Sempre più enigmatico Jonathan Nolan – qui coadiuvato alla sceneggiatura dal grandissimo Ed Brubaker, uno dei quattro/cinque sceneggiatori di comics migliori del nuovo millennio – e Ford sempre più sinistro. Mi sembra corretto affermare che sia lui il personaggio che più si è evoluto nell’arco di questi quattro episodi, per lo meno per quanto riguarda gli umani.

Sul fronte androidi – o host – se la giocano alla grande Dolores e Maeve.

La prima, dopo gli eventi della scorsa, stupenda puntata, sembra essere finalmente alle soglie dell’acquisizione di una propria coscienza (bellissima la metafora delle vacche condotte al macello) e la deliziosa, così erotica Evan Rachel Wood (diciamocelo, c’è qualcosa che questa donna possa fare che non sia erotico?) è perfetta nel comunicarci i dubbi del suo personaggio, le sue paure, così come la sua lenta ma progressiva consapevolezza di se.

La seconda, invece, interpretata da una Thandie Newton che sa come recitare col proprio corpo e col proprio viso, sta vivendo bene o male la stessa esperienza di Dolores, solo che mentre per la prima è tutta una questione psicologica, per Maeve l’evoluzione psicologica sta arrivando fisicamente, morte dopo morte.

Sarà per il bug in circolo nel sistema, che sta creando malfunzionamenti sempre più frequenti, o per la negligenza dei tecnici di laboratorio (le hanno lasciato un proiettile nel ventre perché avevano fretta di rimetterla nel parco) Maeve sta iniziando a capire che i suoi sempre più frequenti incubi forse non sono soltanto degli incubi, ma dei ricordi.

Quanto è bella questa serie? Quanto è sorprendente? Quanto è inquietante? Quanto sa essere intelligente, filosofica e sofisticata?

Nolan conduce il gioco in maniera sublime, conoscendo alla perfezione l’esatta dose di indizi che deve somministrarci settimanalmente per permetterci di continuare a seguire la vicenda, senza però avere la minima idea di dove sta andando a parare. E’ pura narrazione, ogni volta, ogni episodio, sagace e arguta narrazione.

Pensate all’Uomo in Nero di Ed Harris: sappiamo cosa vuole, cosa sta cercando, dove è diretto, ma non sappiamo perché. Nolan e Brubaker ci danno un indizio su chi è (un altro ospite del parco lo riconosce e lo ringrazia, nominando una certa fondazione l’Uomo in Nero possiederebbe e che avrebbe salvato la sorella di questo tizio) ma non è abbastanza per capirlo, neanche unendo tutti i puntini: ogni indizio serve per tenere alta la tensione, per interessare, per ammaliare, per farti credere che potrai arrivare alla soluzione prima che siano gli autori a rivelartela.

Ma fidatevi, non è così.

E infatti la teoria che è circolata in rete questa settimana (cioè che l’Uomo in Nero sia Arnold, il collega che aiutò il dottor Ford a creare Westworld e che, ad oggi, è l’unico umano ad essere morto nel parco) viene subito confutata in questa puntata. Se siete fan di teorie e ipotesi campate in aria non temete: questa settimana ne circolerà un’altra, che lunedì verrà soppiantata e così via.

D’altronde, è uno dei punti di forza della serie (caratteristica peculiare dei Nolan, tra l’altro): ingannarti di continuo, dandoti l’illusione che non stai brancolando nel buio.

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