Festival di Roma: Recensione – Hell or High Water

Pubblicato il 22 Ottobre 2016 alle 14:55

Diretto da David Mackenzie e con un cast stellare in ottima forma, Hell or High Water incanta il Festival di Roma da fuori concorso e fa rivivere il classic western.

L’undicesima edizione del Festival di Roma (o Festa di Roma, come volete) è stata tutta all’insegna del vecchio western che, per citare Shakespeare,  è un po’ la materia di cui è fatto il cinema: da Mucchio Selvaggio Johnny Guitar, passando per Mezzogiorno di FuocoThe Great Train Robbery (del 1903), prima di ogni proiezione lo schermo si riempiva dei fotogrammi dei grandi western del passato, che puntualmente strappavano applausi e vecchi ricordi nella mente degli spettatori più attempati.

Perché, diciamolo, il western è il genere più bello per fare un film. Il più romantico, il più cattivo, il più avventuroso: un buon western può essere tutto e anche di più. E Hell or High Water, nono lungometraggio dello scozzese David Mackenzie, è un ottimo western.

Ambientato in un Texas devastato dalla crisi economica, il film racconta la storia di due fratelli che iniziano a rapinare banche per pagare l’ipoteca del ranch di famiglia, mentre due Texas Ranger si mettono sulle loro tracce. E già da qui potete pregustare quell’odorino delizioso di appagante nostalgia.

Metteteci poi una regia favolosa, interpretazioni somme e la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis che rende tutto epico e sporco allo stesso tempo, e capirete perché la comunità dei critici, per natura scontrosa, spocchiosa e con la puzza sotto il naso, sta praticamente impazzendo tirandosi via i capelli e sbattendo la testa contro il muro e sbavando in tutto il mondo per questo film.

I due fratelli, il minore Toby (Chris Pine) e il maggiore Tanner (Ben Foster) sono una sorta di Bonnie & Clyde in famiglia del 21esimo secolo.

Chris Pine, con due figli adolescenti e un’ex moglie un po’ stronza (ma forse anche giustamente, visto lo stile di vita di lui) ha organizzato un piano di riciclaggio perfetto per ripulire i soldi sporchi delle rapine e ri-immetterli nel circuito bancario per pagare gli alimenti alla sua famiglia e l’ipoteca della casa che vuole lasciare ai suoi figli.

Ben Foster, invece, straordinario, metà schizzato e metà esuberante ex-galeotto, vuole rapinare perché fondamentalmente il criminale è l’unico mestiere che gli riesce bene, e quando suo fratello gli propone la sua idea per uscire dai debiti con la banca è ben lieto di aiutarlo, come se fosse stato messo al mondo esclusivamente per quella missione.

I due sono la voce del popolo, i Robin Hood moderni schifati dall’avidità delle banche che vogliono aggirare il sistema come sotto sotto vorremmo poter fare anche noi, ma alla fine dei conti la legge è legge e ben presto Toby e Tanner iniziano ad essere braccati da Jeff Bridges e Gil Birmingham, alias Marcus (sceriffo veterano prossimo alla pensione) e Alberto (collega di sangue indiano/messicano, più giovane di lui ma non giovanissimo).

Se vogliamo anche i due uomini di legge sono fratelli, e come i personaggi di Pine e Foster sono distanti anni luce per modo di fare e tante, piccole differenze: Marcus è pedante, sistematico, e vessa il povero Alberto con battutacce razziste sugli indiani (il cui repertorio sconfinato, quando prima o poi si esaurirà, verrà rimpiazzato dal repertorio di battutacce razziste sui messicani) che Alberto prende sempre con filosofia e/o risposte pronte e frecciatine altrettanto divertenti.

Forse, l’unica pecca del film è proprio l’insistere troppo su questo umorismo sporco, che dopo un po’ risulta ripetitivo e stagnante, e vi verrà da pensare che forse i due avrebbero fatto meglio a darsi al cabaret piuttosto che alla giustizia. Però, in fin dei conti, gli scambi di battute sono scritti benissimo e fanno sempre sorridere, quanto meno.

A parte questo piccolo neo – che poi è molto soggettivo – il film è praticamente perfetto sotto ogni punto di vista. Il piano sequenza iniziale vede la cinepresa compiere un valzer nel parcheggio adiacente alla banca, con continue giravolte a 360° che illustrano ogni viuzza, ogni porta sul retro, ogni via di fuga prima ancora che il piano dei due criminali si metta in  moto.

Il regista strizza continuamente l’occhio al western classico (i film su Jesse e Frank James,  Il Grinta, sia l’originale con John Wayne che il remake dei Coen, col quale ovviamente condivide Jeff Bridges) e al neo-western (Badlands di Malick, Non è un Paese per Vecchi), infarcendo la propria pellicola con elementi tipici del cinema d’essai. E’ interessante notare – com’era già accaduto in Genius – come ancora una volta ci voglia un regista non-americano per narrare al mondo la quintessenza dell’America: in Genius un regista inglese ci raccontava la storia degli scrittori americani più importanti della letteratura, qui invece è uno scozzese a far rivivere il grande cinema western della Hollywood che fu.

Come se gli Americani fossero troppo intimoriti per confrontarsi con il loro passato.

Bellissima la scena finale, che è declinazione moderna del western allo stato puro: una strada, una prateria, un tramonto, e un uomo che se ne va in macchina invece che a cavallo.

Benvenuti nella nuova era del cinema western.

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