Festival di Roma: Recensione – Denial
Pubblicato il 19 Ottobre 2016 alle 16:15
Mick Jackson torna alla regia di un lungometraggio dopo 14 anni passati nel mondo della televisione.
Avevo sei anni quando, nel 1999, in Italia arrivarono due film che ebbero un impatto non trascurabile sul resto della mia vita: La Minaccia Fantasma e La Mummia.
Se Episodio I (che, film d’animazione esclusi, fu la prima pellicola che vidi al cinema) rappresentò la nascita di una passione sfrenata per l’universo di George Lucas, il film di Stephen Sommers fu quello che, per la prima volta in assoluto, mi fece spalancare gli occhi per una ragazza.
Sto parlando ovviamente di Rachel Weisz, che brillava nei panni di Evelyn: un bambino di sei anni ne sa poco sull’amore, ma fin dal primo momento in cui venne inquadrata, la Weisz mi insegnò a comprendere il concetto di bellezza ideale circa undici anni prima dei filosofi neoclassici.
Tutta questa imbarazzante e poco interessante finestra sul passato spero che sia stata utile a farvi capire quanto sia facile per Rachel Weisz incantarmi in ogni suo film – che si tratti di un film bello, o di uno brutto, mediocre o inguardabile, che sono anche capitati nella sua lunghissima carriera – e la stessa cosa è successa con Denial, di Mick Jackson (uno che di film inguardabili ne sa qualcosa).
Jackson è stato lontano dal panorama cinematografico fin dal 2002, dopo la trascurabile commediaccia Soldifacili.com. E’ stato il regista di Volcano (uno dei peggiori prodotti associabili al nome di Tommy Lee Jones) e del solo-mediocre-cavolo-avrebbe-potuto-essere-una-bomba-in-mano-ad-un-altro-cineasta The Bodyguard. Negli ultimi anni ha trovato il riscatto nel circuito televisivo, soprattutto con l’ottima Temple Grandin, per la HBO, che fu anche candidata agli Emmy.
E, con Denial, sorprendentemente, trova la perla che alza il livello medio di una filmografia fino ad ora dimenticabile.
La vicenda segue l’affascinante e assurda storia vera di Deborah Lipstadt, una scrittrice ebrea americana che tra il ’99 e l’inizio del nuovo millennio dovette affrontare una causa di diffamazione intentata ai suoi danni da parte di David Irving, uno storico (in senso professionale) negazionista dell’Olocausto.
Jackson, con l’eccezione di qualche bella trovata visiva (soprattutto nelle scene ambientate nel campo di concentramento, con la neve che si scioglie sul filo spinato che si fa metafora di tutte le lacrime versate in quell’orribile luogo), non innalza quasi mai la qualità visiva del film, limitandosi a mettere in scena un buon legal-movie che non punta tanto sul ritmo quanto sulla drammaticità degli eventi.
Come per altri film recenti basate su storie vere (Il Caso Spotlight, The Social Network) anche Denial, rifacendosi ad un processo famosissimo che dominò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo per settimane, sa di non poter sorprendere lo spettatore coi colpi di scena e twist narrativi tipici dei legal-thriller (e qui sto pensando a Il Momento di Uccidere, con Samuel L. Jackson, Kevin Spacey e Matthew McConaughey, sto pensando a Codice d’Onore di Rob Reiner con Tom Cruise e Jack Nicholson, sto pensando a Il Socio di Sydney Pollack, sto pensando a La Giuria, con Gene Hackman, John Cusack, Dustin Hoffman e sempre lei, Rachel Weisz) e Jackson si dimostra intelligente da capire che il meglio che può fare è lasciare campo libero alla storia e, soprattutto, agli attori.
Il quartetto principale è formidabile: un grandioso Tom Wilkinson; un Timothy Spall sempre viscido e aberrante; Andrew Scott, che torna a fare il buono dopo aver fatto il cattivo in Spectre e nella serie tv Sherlock; e poi ovviamente c’è lei, Rachel Weisz.
Dopo una performance un po’ “ni” e un po’ “so” in The Light Between Oceans, nel ruolo di una donna ridicolmente accusata e ingiustamente costretta addirittura a difendersi in tribunale da accuse tanto ridicole, perpetrate da un uomo ancora più ridicolo, la bella Rachel splende come solo lei sa fare.
La voce strozzata, il rancore, il dramma di Auschwitz, ma anche e soprattutto il sorriso, pronto a sbocciare alla vista di ogni appiglio di speranza, sono gli elementi con i quali la Weisz caratterizza la sua Deborah.
E’ interessante notare come in questo periodo fortemente votato al femminismo senza tregua (che in certi casi sfiora la parodia del femminismo, o di qualsiasi altro movimento sociale in generale) Jackson continui a lasciare far tutto alla veridicità storica: quando un regista inferiore (o lo stesso Jackson pre-Denial) avrebbe messo Rachel Weisz su un piedistallo, con tutte le luci puntate addosso, e preparato un monologo strappalacrime ad hoc, magari per l’arringa finale, Jackson fa stare Deborah al suo posto, che è dietro gli avvocati della difesa (Tom Wilkinson in formissima in toga e parrucchino) senza però perdere l’occasione di metterle in bocca una delle frasi più belle dell’intero film: “Sai cosa vuol dire affidare la propria coscienza a qualcun altro? E’ quello che sto facendo io con te”, dice la bella Rachel/Deborah, affidando tutto il suo potere oratorio di scrittrice e voce femminista all’avvocato.
Denial è una toccante riflessione sul dramma dell’Olocausto, ma al tempo stesso una storia attualissima sull’ambivalenza del diritto di parola, che sfidando l’odierna ondata di politically correct ha il coraggio di affermare che in certi casi e per alcune persone è un diritto che non dovrebbe valere affatto. Per citare George Orwell, tutti i diritti di parola sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.