Festival di Roma: Recensione – The Birth of a Nation

Pubblicato il 15 Ottobre 2016 alle 14:47

Nate Parker esordisce alla regia con un film provocatorio e dal messaggio controverso, da lui stesso scritto e interpretato .

Era il 1915 quando il regista David Wark Griffith lanciò nelle sale americane The Birth of a Nation, un dramma storico che rievocava la guerra di secessione suggerendo che la vera nascita degli Stati Uniti d’America fosse merito della vittoria nordista.

Per il cinema muto fu uno dei maggiori successi di sempre (tenendo conto dell’inflazione, il film oggi avrebbe incassato circa 300 milioni di dollari) ma finì al centro di numerosissime critiche, soprattutto per la tesi esposta dal regista, e che in qualche modo glorificava l’operato del Ku Kluz Klan (tanto che la setta dai cappucci bianchi era quasi sparita in quel periodo, e proprio grazie al film tornò di moda, se così si può dire).

Con il suo The Birth of a Nation, Nate Parker ci illustra la propria tesi – diametralmente opposta a quella di Griffith, of course – secondo la quale gli Stati Uniti d’America siano nati grazie e soprattutto al sangue versato dagli schiavi (come il flashforward finale esplicita).

Ogni riferimento alla pellicola del 1915 è puramente voluto (titolo compreso, che è identico) così come l’aspra provocazione di Parker. In questa sua opera prima il retrogusto politico-sociale è intenso, e il messaggio è fin troppo chiaro: la violenza può essere giusta, se serve a smuovere le cose.

Potrei già averlo detto un paio di volte, ma vorrei ribarire che The Birth of a Nation è un’opera prima, scritta, diretta e intepretata. Magari zoppica in qualche passaggio, è frettolosa qui o troppo pedante lì, ma in generale sa come stare in piedi con orgoglio, anche in un genere di film già visto tante volte e che sembrava aver raggiunto il suo massimo qualche anno fa con 12 Anni Schiavo di McQueen.

Parker funziona soprattutto davanti alla cinepresa, con una performance sorprendente. Potremmo dire che il Parker regista è funzionale al Parker attore, ma che comunque sa dare una sua impronta alla pellicola, tra citazioni a Tarantino (due volte: con l’immagine del sangue sulla pianta di cotone prima e con la battuta sulla sbobba del maiale dopo), e composizioni degne di un dipinto naturalista.

Il film non è epico come vorrebbe essere, soprattutto nel finale, ma sa cosa vuole dire e quel che è più importante sa come dirlo.

L’ipocrisia dei bianchi, muniti di Bibbia e che distorcono le parole di Dio per reprimere le volontà indipendentiste degli schiavi, è rappresentata dal personaggio di Sam (Armie Hammer), che fondamentale vorrebbe essere un amico dei neri (lo dimostra la quantità spropositata di alcool che deve buttar giù per riuscire a dormire) ma che per farsi bello davanti ai bianchi suoi pari si reprime: questa ipocrisia viene spazzata via nel sangue da Nat e i suoi accoliti, che rivoltano le sacre scritture contro i bianchi, giustificando le proprie azioni attraverso le sanguinarie parole del Dio iracondo dell’Antico Testamento.

Questa metafora cristiana rivisitata in modo così brutale funziona soprattutto perché il suo obiettivo è quello di destabilizzare e suscitare una reazione (e non è forse questo che dovrebbe fare l’arte?) ed è veramente difficile schierarsi contro il protagonista, dopo i soprusi che lui e la sua gente sono costretti a sopportare.

Soprusi che Parker ci mostra integralmente, quasi crudelmente, con impiccagioni di bambini (sulle funeree note di Strange Fruit di Billie Holiday) e una scena in particolare che in sala ha suscitato non pochi sospiri e sguardi vacillanti. Il tutto per prepararci a fare il tifo per il protagonista e la sua non facile impresa.

Il film è costellato di richiami al simbolismo cristiano, e l’epifania che coglie Nat nel finale ha un sapore catartico e (se non per noi, almeno per lui) soddisfacente.

Il primissimo piano finale sembra essere diventata una sorta di moda grazie a Iñarritu, e il Parker regista inesperto può aver scopiazzato, ma ci ha messo del suo per inglobare la tecnica all’interno del contesto, riuscendo nello scopo.

Con il movimento del Black Lives Matter che sta scuotendo gli Stati Uniti da qualche mese a questa parte, The Birth of a Nation scende in campo dicendo la sua, e urlando a gran voce.

La pellicola è stata accostata agli Oscar 2017 prima ancora del suo arrivo nelle sale, ricordando le proteste degli Oscar So White dell’anno scorso, ma questo è un discorso che lascia un po’ il tempo che trova e che forse ha contribuito ad innalzare le aspettative per un film tutto sommato buono (ricordiamo ancora: un’opera prima scritta, interpretata e diretta) ma non epocale.

Quel che è certo è che sentiremo parlare del Nate Parker regista anche in futuro.

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