Festival di Roma: Recensione – Moonlight

Pubblicato il 14 Ottobre 2016 alle 00:12

Il film ha aperto ufficialmente l’undicesimo Festival del cinema di Roma.

“Every nigga is a star”.

Così cantava Boris Gardiner nel 2010, brano che si è fatto subito inno alla vita per la popolazione afroamericana.

L’anno scorso Kendrick Lamar ha campionato la traccia di Gardiner nella canzone d’apertura del suo album-capolavoro To Pimp a Butterfly, che fin dalla sua uscita è diventato il mantra del movimento Black Lives Matter.

E quale migliore canzone, quindi, anzi quale migliore verso, per lanciare la prima scena di Moonlight, un film di un afroamericano sugli afroamericani, indirizzato agli afroamericani e non?

Ed è così infatti che esordisce la pellicola. Con Boris Gardiner che intona “Every nigga is a star”. “Ogni negro è una stella”.

Quindi Moonlight è un film per neri? Assolutamente no. Perchè, parafrasando, la frase di Gardiner significa una sola cosa: ogni vita è preziosa e splendente.

Scritto e diretto da Barry Jenkins, al suo secondo lungometraggio dopo il buonissimo Medicine for Melancholy, il film racconta i tre periodi fondamentali della vita di Chiron, soprannominato Little prima e Black poi, un afroamericano della Florida che nonostante le varie difficoltà cui andrà incontro cercherà in tutti i modi di rimanere fedele a se stesso, e soprattutto di scoprire se stesso.

Dal rapporto conflittuale con la madre (la ottima Naomie Harris, qui forse alla performance della carriera) all’incontro con una nuova figura paterna, passando per la scoperta della sessualità per arrivare a diventare uomo, la vita di Chiron ci viene raccontata in maniera onesta, senza che ci sia il bisogno di addolcirla e/o brutalizzarla.

In questo senso la sceneggiatura di Jenkins funziona alla perfezione, con dialoghi realistici in ogni scena: sia che Chiron sia un bambino, sia che sia adolescente e infine adulto, userà sempre termini coerenti con la sua età, farà le domande che farebbe una persona in quel preciso momento della vita, ma, in fondo in fondo, rimarrà sempre la stessa persona (come gli farà notare il suo amico Kevin, in una delle ultime scene, sottolineando come, sebbene siano passati tanti anni dal loro ultimo incontro, Chiron continui ancora a scuotere la testa e rimanere in silenzio).

Introverso a causa dei bulli che lo maltrattano a scuola e della madre che lo ignora a casa, Chiron troverà il padre che non ha mai avuto in Juan (Mahershala Ali), uno spacciatore di quartiere che lo prenderà in simpatia: proprio le scene fra Ali e Chiron bambino (interpretato da Alex Hibbert) saranno quelle più toccanti – in particolare la chiacchierata sulla spiaggia – nonchè le migliori da un punto di vista tecnico.

Il piano sequenza iniziale, girato con camera a mano, ci porta in quel ghetto di Miami, a quell’angolo di strada, e il modo in cui la cinepresa gira e vortica intorno agli attori fa pensare ad una danza, con movimenti fluidi ed eleganti in netto contrasto con la crudezza della vita di quartiere. E poi ancora la sequenza nel mare, con la lezione di nuoto: ancora camera a mano, e noi siamo in acqua con i due attori, a goderci il momento.

Davvero struggente la scena nella quale Naomie Harris, tossica e prostituta, chiede i soldi a Chiron adolescente (interpretato da Ashton Sanders, presente in sala vicino al Presidente della Repubblica Mattarella) sta uscendo per andare a scuola, e ancora una delle sequenze finali, con Chiron adulto (Trevante Rhodes) che fa i conti con la madre, chiusa in clinica di riabilitazione.

Ottima la colonna sonora fatta ora di violini e pianoforte, ora di tracce hip-hop a tutto volume, e più in generale il montaggio sonoro, che ci fa percepire il rumore di ogni onda e il soffio del vento.

Il boato di applausi durante i titoli di coda fa pensare che già col suo primo film il Festival (o Festa) di Roma potrebbe aver trovato un papabile vincitore.

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