Recensione – Westworld 1×02: “Chestnut”
Pubblicato il 11 Ottobre 2016 alle 20:00
“Queste gioie violente hanno violenta fine”.
Che la HBO sia coraggiosa l’avevamo capito già da tempo.
Al di là dei successi commerciali, come può essere oggi un Game of Thrones o come è stato in passato True Blood, abbiamo visto solo l’anno scorso quanto osino le serie più autoriali: Damon Lindelof con la seconda stagione di The Leftovers ha esordito con una scena ambientata durante l’età della pietra, per poi tornare con un piano sequenza ai giorni nostri e presentandoci nuovi personaggi, spiazzando completamente il pubblico per almeno tre quarti dell’episodio quando poi, verso il finale, i protagonisti della prima stagione facevano il loro ingresso in scena.
In Westworld Jonathan Nolan si sta prendendo le stesse libertà. Nel pilot della settimana scorsa non ci veniva spiegato un bel niente su come funzioni il parco a tema western su cui la serie si basa: lo fa in questo secondo episodio, intitolato Chestnut.
Facciamo la conoscenza di un nuovo, riluttante ospite di Westworld, interpretato dal sempre ottimo Jimmi Simpson: il suo personaggio, William, arriva a Westworld per la prima volta, e una serie userfriendly ce lo avrebbe presentarcelo fin dal pilot.
William, che si lascia guidare dal suo amico Logan (Ben Barnes), un veterano di Westworld che sa come muoversi e dove andare per divertirsi, prima ancora di mettere piede nel parco si ritrova alla mercé dei vizi che il parco a tema offre ai suoi ospiti: è piuttosto riluttante al cospetto di tutta quella vita artificiale così autentica, e anche spiazzato dal comportamento brutale dell’amico (che lui, per la verità, dice di non considerare così “amico”). Si chiede come funzioni quello, cosa accadrebbe se facesse quest’altro, cosa sia reale e cosa no.
Emblematica è lo scambio di battute con la ragazza che lo accoglie e gli spiega in generale la situazione: se per scoprire chi sia o non sia reale ha bisogno di chiederlo, allora non ha importanza chiederlo.
I due personaggi sono rielaborazioni dei protagonisti del film omonimo del 1973, interpretati da James Brolin e Richard Benjamin (anche nel film uno era cauto e circospetto, l’altro più estroverso) e vedremo se la loro storyline, nella serie tv, prenderà direzioni diverse rispetto a quella del film.
La puntata approfondisce anche la natura degli host, cioè gli esseri umani artificiali che popolano il parco: nello specifico, seguendo la quotidianità di Maeve (interpretata da una Thandie Newton in gran forma) scopriamo che sono in grado di sognare, o meglio, di avere incubi. In pratica gli esseri artificiali creati dal dottor Ford sono talmente realistici che i ricordi delle sessioni precedenti non scompaiono del tutto, ma vengono immagazzinati nel loro sistema prima di ogni riavvio.
Per impedire che ricordino tutte le sofferenze alle quali sono stati sottoposti nel corso degli anni (come Dolores, che da trent’anni viene stuprata dall’Uomo in Nero) gli è stata implementata questa caratteristica, che gli permette di rievocare queste sofferenze passate sotto forma di incubi.
La scena dell’attacco degli indiani, nell’incubo/ricordo di Maeve, sfoggia una fotografia dorata e luccicante che offre un contrasto nettissimo con la brutalità che accade sullo schermo, ed è stato anche interessante vedere come la mente di Maeve abbia probabilmente accavallato due ricordi distinti (l’attacco degli indiani e il primo incontro con l’Uomo in Nero) causando una specie di sovraccarico del sistema, che le ha permesso di svegliarsi mentre i tecnici del laboratorio la stavano operando.
Quello che molti all’interno del laboratorio sotterraneo non hanno capito (forse solo il dottor Ford ne è a conoscenza, ma per ora non ci è dato sapere) è che gli host hanno raggiunto un livello di realismo tale che pensano di essere praticamente umani: ora, come reagireste voi se scopriste che siete stati creati da qualcuno che poi vi ha preso e trasformato in attrazioni di un parco a tema, e che la vostra vita non sia altro che un gioco a disposizione degli altri?
Sono talmente realistici, insomma, da non essere attrazioni, ma schiavi. Schiavi che non sanno di essere schiavi. In questo senso, la serie potrebbe essere vista come una sorta di rilettura moderna del mito di Platone, con Dolores che sembra essere pronta a scoprire la realtà che la circonda fuori dalla caverna/Westworld.
Un altro punto particolarmente interessante è la storyline del personaggio di Ed Harris. Quando una storia è così complessa è più probabile che mostri il fianco a incongruenze o buchi, e per questo deve essere inattaccabile: dopo la scorsa puntata era lecito chiedersi come mai ai programmatori del parco fossero sfuggite le azioni dell’Uomo in Nero, sulle tracce di un misterioso labirinto che, stando a quello che dice, gli aprirebbe le porte per un “livello più profondo del gioco”.
La genialità di Nolan è quella di aver tenuto in conto anche delle domande che la sua storia avrebbe suscitato negli spettatori, e infatti in Chestnut scopriamo che neanche l’Uomo in Nero può sfuggire all’occhio del grande fratello del laboratorio, solo che lui, semplicemente, può fare ciò che vuole. Che Westworld nasconda una sfida più profonda per gli ospiti?
Qual è l’obiettivo dell’Uomo in Nero (strizzatina d’occhio di Nolan a Stephen King?), che dichiara di non voler tornare mai più nel mondo reale? E si, magari è ricco sfondato e torna a Westworld da 30 anni, ma deve esserci un limite a quello che può fare, giusto?
Sembra quasi che voglia sovvertire l’ordine naturale della vita nel parco, quasi che voglia distruggere la creazione del dottor Ford (magari per vendetta? Chissà…), e gli viene detto che per lui il labirinto è proibito, ma allora perché gli organizzatori del parco non lo fermano?
Ma soprattutto, cosa ha in mente il dottor Ford? E’ stato divertente vedere la presentazione della nuova story line “Odissea sul Fiume Rosso”, creata dall’ingegnoso e spassoso Lee (una sorta di DLC al maxi videogame interattivo che è Westworld), ma quella scena è servita a Nolan in primis per spiegare che Ford vede nel suo parco un significato più profondo e filosofico, non solo divertimento sfrenato (oppure è qualcosa che si racconta per dormire meglio la notte?).
Sono curioso di vedere cosa ha pianificato, con quell’ambiguo campanile nero che sbuca dal terreno sabbioso. Enigmatico ma toccante l’incontro col bambino-host, che potrebbe essere una versione di se stesso da giovane o suo figlio scomparso e ricreato come androide.
Westworld si fa sempre più affascinante ed intrigante, mentre la tensione cresce tra nuovi ed inquietanti misteri.