Ben-Hur – Recensione
Pubblicato il 30 Settembre 2016 alle 14:50
Giuda Ben-Hur è un nobile ebreo che si addossa la colpa di un crimine che non ha commesso e viene accusato di tradimento dal fratello adottivo Messala, ufficiale dell’esercito romano. Strappato alla sua famiglia, Ben-Hur viene costretto in schiavitù su una galea dell’Impero ma riacquista la libertà dopo una battaglia con la flotta greca. Decide così di vendicarsi affrontando Messala in una corsa di quadrighe.
Il nuovo remake di Ben-Hur è un film che vi fa sentire sulla pelle le vicissitudini del protagonista. Nel senso che, mentre lo guardate, avrete la sensazione di essere incatenati su una galea come schiavi, frustati e torturati, con il bisogno impellente di ribellarvi e fuggire dalla sala. Sì, è un brutto film, definito da molti addirittura il peggiore dell’estate tra gli aspiranti blockbuster, e no, questo non autorizza il pubblico a ricominciare con la solita solfa sull’aver “rovinato” un classico.
Quando si parla di Ben-Hur, infatti, tutti pensano subito al kolossal con Charlton Heston del 1959, vincitore di undici premi Oscar su dodici nomination ottenute e divenuto, nella cultura popolare, il peplum per antonomasia insieme a Spartacus di Stanley Kubrick. In realtà, il romanzo originale scritto dal generale Lewis Wallace aveva già ricevuto due precedenti trasposizioni mute nel 1907 e nel 1925. Quindi la celebre e pluripremiata versione del ’59 era già un remake, a dimostrare che non tutti i rifacimenti vengono per nuocere.
Ed è un capolavoro che resta tale, non viene “rovinato” neppure dalla nuova iterazione che non denota alcuna urgenza creativa, solo l’esigenza hollywoodiana di spremere ogni franchise possibile senza risparmiare i kolossal biblico-epici. Abbiamo già visto il pessimo Exodus di Ridley Scott, il contoverso Noah di Darren Aronofsky e c’è stata anche una recente versione direct-to-video di Davide e Golia. In questo caso, si è rivelato vano lo sforzo produttivo da 100 milioni di dollari che ha riportato Ben-Hur negli storici set di Cinecittà e gli ha fornito anche gli scenari di Matera.
Alle redini di questa malmessa quadriga coi cavalli zoppi troviamo il kazako Timur Bekmambetov, bravino a trovare buoni concept da sviluppare in veste di produttore, seppur con risultati altalenanti (9, Apollo 18, L’ora nera, Hardcore Henry), e discutibile dietro la macchina da presa (Wanted, La Leggenda del Cacciatore di Vampiri).
Comprimere l’epopea del reietto principe ebreo in poco più di due ore di film è già piuttosto arduo. Come se non bastasse, gli sceneggiatori non fanno nulla per rielaborare o aggiornare il concept originale e la storia procede con una sfilza di dialoghi messi in scena da un cast esangue senza dare alla narrazione il giusto afflato epico o la profondità necessaria per legarsi ai personaggi. Sono solo una serie di eventi appiccicati uno all’altro, privi di ogni coinvolgimento emotivo. Bekmambetov sembra pensare che basti usare un’handycam per rendere le scene più interessanti.
Jack Huston non ha il carisma adeguato per gettare sulle spalle del pubblico il dolore del protagonista, la sua ossessione di vendetta e i suoi dubbi morali. Siamo lontani dall’empatia che poteva suscitare Heston o anche il Russell Crowe de Il Gladiatore. Toby Kebbell (Dr. Doom ne I Fantastici Quattro) non se la cava meglio nel ruolo di Messala mentre Morgan Freeman firma una trascurabile marchetta nel ruolo del mentore. L’iraniana Nazanin Boniadi è la compagna di Ben-Hur che cerca di dissuaderlo dai suoi propositi di rivalsa. Per fortuna non ci riesce, almeno nel film succede qualcosina. Non avrà problemi di autostima Rodrigo Santoro che passa dal dio re Serse di 300 a vestire i panni di Gesù Cristo.
La promozione del film cerca di far leva sulle uniche due scene spettacolari, la battaglia navale piazzata all’inizio del trailer è breve e priva d’inventiva. Se riuscirete a resistere fino alla fine senza addormentarvi potrete assistere alla corsa con le quadrighe promessa dai poster, girata anche benino, con grossi debiti da Il Gladiatore, valorizzata dagli effetti digitali ma indebolita dalla colonna sonora svogliata di Marco Beltrami.
L’epilogo miracolistico che funzionava sessant’anni fa, avrebbe avuto bisogno di una revisione più attuale, magari più ambigua, viene invece lasciato inalterato e tutto scivola in una stucchevole redenzione buonista e riconciliante.